In tempi recenti le proteste di lavoratori cinesi sono state al centro dell’attenzione dei media internazionali. Sono però le grandi aziende di stato, soprattutto nel settore manifatturiero, il vero calderone del malcontento popolare. L’appello che sale dal basso è netto: adeguare i salari e bilanciare lo sviluppo. Non solo brand famosi, anzi: in Cina i lavoratori che soffrono le peggiori condizioni non sono paradossalmente quelli delle fabbriche che lavorano per nomi rinomati, sui quali l’attenzione internazionale non permette eccessi. Chi sta peggio in Cina sono i lavoratori impegnati in impianti (quando non sono miniere) di proprietà nazionale, impegnati nella fabbricazione di scarpe, vestiti, elettronica, giocattoli: la fabbrica del mondo. Lontani dai media, dagli audit e dai report internazionali, costituiscono focolai di rivolta quotidiana.
Solo nel 2012 sono stati oltre 150 quelli che in Cina si definiscono “incidenti di massa” in relazioni al “manifatturiero”: ovvero scioperi o scontri tra operai e aziende, quasi sempre per rivendicazioni salariali. Non si muovono però solo gli operai: ben 43 sono stati gli scioperi nel settore dei trasporti, mentre comincia ad animarsi quello che potremmo definire il moderno cognitariato cinese.
Nel 2012 infatti ci sono state numerose proteste espresse anche nel settore dell’educazione, a segnalare cambiamenti storici del gigante asiatico.
“Anche se i salari sono aumentati nel corso degli ultimi anni, i livelli salariali sono ancora relativamente bassi e gli operai devono fare parecchi straordinari solo per ottenere un salario dignitoso. Le questioni legate alla salute e alla sicurezza costituiscono ancora un grosso problema tenendo conto che abbiamo circa un milione di infortuni sul lavoro ogni anno. Anche il mancato pagamento delle assicurazioni sociali è un grosso problema, molti lavoratori non hanno una pensione o assicurazione sanitaria”.
E’ il quadro tracciato da Geoff Crothall portavoce della organizzazione non governativa China Labour Bulletin, da tempo impegnata nelle attività di ricerca e sostegno del mondo del lavoro cinese.
Una situazione che in alcune aree del paese è lievemente migliorata in questi trent’anni di apertura e riforme economiche, ma che ancora mantiene i connotati di emergenza in molte zone. Si parla tanto – infatti – di lavoratori cinesi. Periodicamente, specie quando qualcosa accade in fabbriche che gestiscono produzioni per grandi brand internazionali (è il caso della Foxconn con la Apple), torna di moda sui media occidentali parlare delle rivolte dei lavoratori cinesi.
Ma quanti sono gli scioperi in Cina e perché? In un paese in cui la comunicazione è completamente in mano al Partito Comunista che tutto controlla e che si assicura che poche siano le informazioni a uscire fuori dalla muraglia, per avere un quadro generale della situazione, ci si deve affidare al lavoro di organizzazioni non governative, che tra ricerche e contatti con lavoratori provano a mappare lo scontro sociale in Cina.
E allora, attraverso il lavoro del China Labour Bulletin abbiamo provato a capire quanti e di che tipologia sono gli scontri nelle fabbriche cinesi. Osservando una ipotetica mappa del paese nel 2012, fermandoci all’anno in corso, potremmo osservare una macchia scura di scioperi e mobilitazioni nella parte sud orientale del paese. Il polmone economico cinese, la fabbrica del mondo. Nel 2012 sono stati 265 quelli che in Cina vengono definiti “incidenti di massa”, ovvero scioperi e scontri tra proprietà (statale o straniera) e lavoratori.
Nel 2012 a dare il via alle proteste è stata la fabbrica nel Guangdong (che da solo produce un quinto delle esportazioni cinesi) della Houjie Electronics. Producono Led e durante il pranzo gli operai scoprirono la presenza di topi dentro alle zuppe. Ne nacque una protesta, resa pubblica dai media locali che seguirono il fatto senza lesinare particolari.
Il 4 gennaio è stata la volta di una fabbrica di giocattoli nel Guanxi, la Winway: gli operai hanno protestato, chiedendo aumenti salariali. E poi nel corso dell’anno, altri scioperi, sempre con le stesse motivazioni: “aumento dei salari, pagamento degli straordinari, il pagamento delle prestazioni di previdenza sociale, il miglioramento delle condizioni di lavoro, salari arretrati, indennità per i licenziamenti”, come spiega a Wired Crothall.
La Cina sembra voler correre ai ripari, nel tentativo di bilanciare lo sviluppo del paese con la progressiva necessità di un miglioramento della qualità della vita, ma non solo. La crisi europea e statunitense ha infatti posto il paese di fronte alla necessità di aumentare il mercato interno, a fronte di un calo delle esportazioni che ha messo in grave difficoltà molte aziende locali.
E per aumentare il mercato interno è obbligatorio aumentare i salari, in modo da permettere che anche i lavoratori possano spendere soldi sul mercato cinese. E così nel nuovo piano quinquennale è infatti previsto che mediamente i salari minimi aumentino del 13%. In alcune zone gli introiti per i lavoratori hanno fatto registrare aumenti rilevanti. Ad esempio a Shanghai che ha aumentato il livello minimo salariale 18 volte dal 1993, da 210 yuan agli attuali 1.450 yuan al mese (poco meno di 200 euro).
In Guangdong poi, la regione più segnata da scioperi e proteste, il governatore Wang Yang che passa per essere un “liberale” aveva anche promosso – e promesso – lo sviluppo di ong specializzate su tematiche lavorative, ma negli ultimi tempi qualcosa non ha funzionato a dovere e sette di queste organizzazioni sono state chiuse.
A metà ottobre in Cina cambieranno i vertici del paese e il compito dei nuovi leader, sulla carta, sembra chiaro a tutti: bilanciare lo sviluppo, ovvero dotare la società cinese di quel giusto equilibrio tra sviluppo – seppure in rallentamento – e miglioramento della qualità della vita dei propri cittadini.
[Scritto per Wired; foto credits: Reuters]