La fila di camion al confine tra Mongolia Interna cinese e Repubblica di Mongolia si protrae spesso per settimane: una colonna interminabile di tir che passa da una regione all’altra trasportando le terre rare: i giacimenti sono concentrati ai confini tra Repubblica di Mongolia (ex satellite dell’Unione Sovietica) e regione autonoma a statuto speciale della Mongolia Interna (cinese). Nella zona ovest della Mongolia Interna sorge infatti l’area mineraria di Bayan obo, la capitale delle terre rare, in cui si accumulano oltre 100 milioni di tonnellate di questi metalli. E’ qui che l’attività di estrazione e lavorazione delle terre rare è tra le più intense al mondo. Si lavorano soprattutto le ” leggere”, usate nello sviluppo delle turbine eoliche, auricolari, microfoni, schermi al plasma, magneti, veicoli elettrici, videocamere, smarthphone.
La Cina controlla il 91% delle terre rare, indispensabili per l’industria hi-tech ma anche per le energie rinnovabili. Non si tratta infatti solo della presenza dei giacimenti (la Repubblica Popolare ne possiede il 38% , gli altri si trovano nel resto del mondo, in Russia, Stati Uniti, Australia, Brasile….); si tratta soprattutto delle difficoltà che si incontrano nell’estrazione e nella lavorazione delle terre rare (chiamate terre ma in realtà parliamo di metalli). Un’attività con dei costi altissimi e una pesantissima ricaduta sull’ambiente per l’inquinamento che ne deriva. Per buona parte l’estrazione delle terre rare sprigiona tra l’altro materiale radioattivo.
L’importanza delle terre rare è cresciuta a dismisura negli ultimi 40 anni, ( “il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina ha le terre rare”, aveva detto Deng Xiaoping già negli anni 80 con intuizione visionaria) e oggi il controllo di questi preziosi elementi sta diventando uno dei principali deterrenti in mano cinese nel confronto geopolitico con gli Stati Uniti, soprattutto da quando l’amministrazione Trump ha vietato alle aziende statunitensi di vendere componentistica al colosso tecnologico cinese Huawei.
Da allora il presidente Xi Jinping, senza grandi commenti e senza particolare agitazione, ha semplicemente potenziato e nuovamente rilanciato il piano di investimenti per la tecnologia, (dopo Made in China 2025, obiettivi sono prefissati anche per il 2035) in modo che la Repubblica Popolare possa rendersi autosufficiente in tempi relativamente brevi per quello che riguarda la produzione di quella componentistica importata dagli Stati Uniti.
Alla luce di tutto questo il monopolio delle terre rare deve rimanere saldamente in mani cinesi, secondo Pechino, ora più che mai: la Cina, il paese da cui è partito il virus, ritenuta da più parti nel resto del mondo la principale responsabile dell’epidemia, è di fatto il primo paese ad aver superato brillantemente l’emergenza sanitaria: non solo secondo il Fondo Monetario Internazionale la Cina sarà l’unico paese a crescere in questo periodo, e dunque l’ex celeste impero riprende la sua ascesa con un piglio che sembra quasi più deciso e assertivo di prima. Le linee guida dell’ultimo plenum del PCC che si è concluso di recente parlano chiaro: con la teoria della “doppia circolazione” Xi Jinping si propone di riequilibrare le esportazioni all’estero e si rivolge soprattutto al mercato interno, nonostante le difficoltà da affrontare in questo senso nel suo paese. D’altra parte al vertice dell’Apec il presidente cinese ha anche rassicurato il mondo intero su quali siano i reali confini della “doppia circolazione”: “la Cina è da tempo integrata nell’economia mondiale e nel sistema internazionale” ha detto, “non faremo passi indietro nella storia. Non faremo il disaccoppiamento e non formeremo nessuna unione che sia chiusa e isolata nei confronti degli altri”, lasciando intendere la sua apertura e il suo sostegno verso il multilateralismo
II settore di punta resta la tecnologia. 5g, intelligenza artificiale, tecnologia quantica. La Cina procede dritta verso il primato mondiale nel settore, e il ruolo di territori strategici ricchi di materie prime diventa più che mai di primo piano. Abbiamo chiesto a Davor Antonucci, professore associato di Storia dell’Asia Orientale all’Università di Roma La Sapienza in cosa consiste questa pressione di Pechino sulla minoranza mongola, accerchiata anche da un punto di vista culturale.
Professore prima di inquadrare l’etnia mongola a livello storico e culturale lei pensa che dietro questa nuova stretta di Pechino nei confronti della Mongolia Interna ci siano anche delle ragioni strategiche, come ad esempio mantenere il controllo delle terre rare?
“Certamente in Mongolia Interna ma in tutta quell’area geografica, anche nella Repubblica di Mongolia c’è un’intensa attività anche di scambio. Le terre rare sono per il 91% in mano cinese a livello mondiale e quindi è chiaro che la Cina non voglia rinunciare a questo monopolio. D’altra parte bisogna anche considerare che le materie prime e le risorse più importanti per l’economia cinese si concentrano proprio nelle regioni autonome abitate da minoranze etniche come ad esempio in Tibet il legname, -il Tibet è stato quasi completamente disboscato – o nel Xinjiang, il Turkestan cinese abitato dalla minoranza turca/uigura, il gas o l’energia elettrica. Infine, proprio nel Xinjiang provincia vasta e scarsamente popolata, la Cina esegue esperimenti nucleari. Regioni che tra l’altro sono tutte situate in posizioni geografiche strategiche. La Mongolia interna, a stretto contatto con l’area russa, il Xinjiang lungo le nuove rotte terrestri della Via della Seta che collegheranno la Cina all’Europa, il Tibet, regione cuscinetto tra Cina e India, ma anche lo stesso Yunnan, dove ci sono molte minoranze, costituisce un’altra zona cuscinetto tra Cina e il sud-est asiatico”.
Territori indispensabili per la grande Cina nazionalista, fondamentali per la costruzione della strategia geopolitca internazionale; per questo Pechino sta mettendo in atto una sorta di sinizazzione forzata nei confronti di alcune minoranze e sta attuando una censura culturale nei confronti della Mongolia Interna: situata nel nord della Cina, la regione autonoma della Mongolia Interna è popolata da 4 milioni e 200mila mongoli, il 17% della regione.
Uno degli interventi più eclatanti di Pechino è stata la cancellazione di una mostra su Gengis Khan prevista a Nantes in Francia all’inizio del 2021 (realizzata in collaborazione con il Museo di Storia della Mongolia Interna di Hothot la mostra aveva l’ obiettivo di mettere in luce la figura di Gengis Khan, uno dei più grandi conquistatori della storia: duecentoventicinque pezzi tra cui sigilli imperiali e oggetti in oro mai visti prima in Francia, consacrati al grande condottiero e all’impero mongolo, un’esposizione grandiosa cancellata ufficialmente a causa del covid, e che potrà essere eventualmente riproposta in seguito purché’ non segua le linee del progetto originario… “a causa della censura delle autorità centrali cinesi” ha dichiarato Bertrand Guillet, direttore del Museo di Storia di Nantes intervistato dal quotidiano francese Le Monde; “Pechino è intervenuto sui contenuti della mostra per modificarli” ha detto Guillet, “ad esempio, chiedendo di ritirare alcuni vocaboli che ricorrevano nella narrazione della mostra come “Gengis Khan”, “impero” e “mongolo”, chiedendo di modificare il titolo in “figlio del cielo e delle steppe”. “Tutto passa nel tritacarne del nazionalismo cinese” ha dichiarato sempre a Le Monde la studiosa di storia mongola Marie Dominique Even, ” la mostra porta avanti un discorso di rottura con la narrazione ufficiale e questo da Pechino non è ammesso”.
Professore come viene considerata questa minoranza dall’establishment ufficiale?
“In realtà i mongoli della Mongolia interna fanno parte della Repubblica Popolare, e il grande impero mongolo con la sua storia è visto dalla narrazione ufficiale come un popolo e un mondo culturale integrato nella grande nazione cinese. Ma secondo Pechino il valore simbolico della figura di Gengis Khan deve essere messo al servizio dell’impero di Xi Jinping, piuttosto che dividere deve unire, alimentare il concetto che tutte le altre etnie sono state assimilate nella cultura cinese Han che secondo la lettura ufficiale è una cultura superiore a tutte le altre. Inoltre, il timore del governo centrale è anche un ritorno del panmongolismo”.
L’idea del panmongolismo sostiene l’unità culturale e politica del popolo mongolo. Rimanda a un territorio ideale detto Grande Mongolia che comprenderebbe la Repubblica di Mongolia (prima del 1991, quando si è resa indipendente, paese satellite dell’ex Unione Sovietica), le province cinesi della Mongolia interna e Zungaria e la repubblica russa della Buriazia. Un movimento nazionalista emerso nel Ventesimo secolo in risposta al crollo della dinastia Qing (i mancesi che hanno dominato la Cina per quasi tre secoli) con l’ideale che si potesse formare uno stato mongolo indipendente. Ma la minoranza mongola è presente anche in Tibet, nel Xinjiang, e nello Yunnan. Il discorso sulla figura leggendaria di Gengis Khan viene da lontano: nella Mongolia interna esiste un mausoleo in onore del grande condottiero e la sua immagine ha sempre unito il popolo mongolo ma come dicevamo il popolo mongolo è diviso tra Mongolia Interna e Repubblica di Mongolia, ex sovietica, che ovviamente vede in Gengis Khan il padre fondatore della patria. Qualche anno fa è stata innalzata nel mezzo della steppa un’enorme statua di Gengis Khan a cavallo, è alta 40 metri, la più grande statua equestre del mondo e questo è sempre stato visto come uno strumento, un mezzo attorno al quale poter raccogliere le diverse anime del popolo mongolo. Quindi il governo cinese ha sempre temuto la potenza di questa figura, l’utilizzo che si possa fare del personaggio, insomma la rinascita di un orgoglio etnico.
Come si esprime la politica del governo cinese nei confronti della minoranza mongola e in generale delle minoranze etniche?
“È un nuovo corso chiamato ‘politica etnica di seconda generazione’, una linea strategica pensata nei think thank della capitale, nelle università più prestigiose di Pechino come Beida o Qinhua, un’idea secondo la quale la vecchia politica verso le minoranze mutuata dall’Unione Sovietica, non è una strada più perseguibile in Cina. Una politica che esaltava, valorizzava, proteggeva la peculiarità di ciascuna minoranza con il sostegno dello stato, un metodo volto a etnicizzare questi gruppi di popolazione mantenendoli in uno status speciale, proteggendone lingua e cultura diversa rispetto a quella dominante della razza Han, i cinesi propriamente detti.
“Un’etnicizzazione politica delle minoranze “ che Pechino tende a ridimensionare sempre di più: il nuovo corso prevede invece un modello che si potrebbe chiamare ‘all’americana’, dove le minoranze hanno gli stessi diritti all’uguaglianza come il resto della popolazione, però non hanno attenzioni particolari riguardo alla lingua o diritti territoriali speciali, o autonomie speciali, riprendendo il modello americano dove tutto viene insegnato a scuola in inglese e dove non ci sono scuole particolari in cui si insegni nella lingua delle minoranze. Cosa accaduta in Mongolia interna il mese scorso, ossia la decisione di sospendere l’insegnamento di alcune materie in mongolo e di imporlo in mandarino per iniziare un processo che sarà un crescendo. La politica sull’uso del putonghua, il cinese mandarino, è stata messa in atto nel 2017 nel Xinjiang, nel 2018 in Tibet e adesso nella Mongolia interna, e rientra nel disegno di non fare delle minoranze un qualcosa di slegato dal resto del paese”
Pechino teme spinte separatiste?
“Forse…il presidente Xi Jinping ha portato varie argomentazioni nei suoi discorsi; ad esempio rispetto alla lingua la tesi del governo centrale sostiene che i libri di testo nazionali e gli standard dei curricula e dei programmi degli insegnamenti in cinese sono migliori di quelli fatti nelle lingue delle minoranze, questo per quanto riguarda l’educazione; oppure che per entrare nel mercato del lavoro è più utile sapere il cinese e anche l’inglese ovviamente, e in effetti in questo senso già dagli anni 90 in Mongolia interna si cominciava a insegnare il cinese o l’inglese nelle scuole. E ancora Xi Jinping ha sottolineato nei suoi discorsi che l’uso del mandarino in tutta la Cina è importante per la comunicazione, per la comprensione e l’inquadramento delle minoranze all’interno della grande nazione cinese che deve rimanere coesa e soprattutto serve a raggiungere una sorta di identificazione comune nazionale. Non solo, l’unità linguistica dovrebbe anche favorire l’insegnamento delle arti e delle scienze.
La dialettica tra minoranze etniche e cinesi Han ha dominato tutta la storia della Cina, dall’epoca delle dinastie. Molti storici hanno alimentato l’antica visione dualista barbari/sedentari. Ma ci sono altre letture della storia cinese? Ad esempio, quella che riconosce l’identità e il valore culturale delle minoranze non cinesi? Nel senso che i barbari del nord sono comunque sempre stati identificati come rozzi e incolti nonostante avessero fondato degli imperi fiorenti a cominciare appunto da quello mongolo: Yuan il temine scelto dai mongoli per nominare la dinastia significa “origine”, ed è tratto dall'”I Qing, il Libro dei Mutamenti”, il primo testo filosofico cinese, una scelta piuttosto raffinata per un barbaro…
“Sì certamente i mongoli appunto avevano scelto il termine Yuan, “inizio, origine” che è il primo esagramma del Libro dei Mutamenti, proprio per dare rilievo alla loro identità culturale e dare un’impronta decisa alla dinastia. L’élite mongola dominante aveva relegato i cinesi Han alle sfere più basse della gerarchia sociale. Anche gli stranieri, come ad esempio lo stesso Marco Polo, venivano prima ed erano tenuti in più alta considerazione rispetto ai cinesi. Dunque i mongoli hanno influenzato la cultura cinese Han in modo molto più profondo di quanto non voglia far credere la storiografia ufficiale. Lo stesso vale per i mancesi : la new Qing history vede la Manciuria come un mondo e una cultura a sé stante, tra l’altro essendo i mancesi i fondatori dell’ultima dinastia Qing (1644/1912) sono loro ad aver creato le basi per la futura Repubblica. Una visione che nega la totale sinizazzione dei mancesi: anzi anche in questo caso la classe dirigente non era cinese ed era decisamente refrattaria alla cultura Han”.
La dialettica delle minoranze ha caratterizzato tutta la storia cinese: una discontinuità che si contrappone alla narrazione ufficiale della continuità. Oggi la Cina sembra tornata ad avere un ruolo centrale nel nuovo ordine mondiale. Messa in ginocchio dall’epidemia, ora si presenta come un paese sano che si contrappone all’Occidente ancora malato: il superamento della crisi pandemica sembra aver ridato linfa al tema del “national rejuvenation” o “sogno cinese” di Xi Jinping e ora tenere unito l’impero celeste sembra ancora una volta per Pechino l’unica strada possibile; in quest’ ottica il ruolo delle minoranze potrebbe rivelarsi, come accaduto spesso nella sua storia, determinante. Quali saranno gli scenari futuri in questo senso? In che termini le minoranze andranno a incidere negli equilibri politici cinesi interni e di conseguenza negli assetti geopolitici mondiali, vista la pressione internazionale che si sta creando su questi temi? Negli Stati Uniti il dossier Cina è uno dei primi da affrontare per l’amministrazione del presidente eletto Biden; e tra le priorita’ ci saranno ancora i diritti umani: Hong Kong, Tibet, Xinjiang, e ora anche Mongolia Interna,..insieme alla questione di Taiwan, potrebbero diventare importanti aghi della bilancia.
Di Maria Novella Rossi*
*Maria Novella Rossi, sinologa e giornalista RAI tg2, redazione esteri. Laureata in Lingua e Cultura Cinese, Dottore di Ricerca su “Gesuiti in Cina”, è stata in Cina la prima volta con una borsa di studio del Ministero degli Esteri dal 1984 al 1986; quindi è tornata molte volte in Cina per studio e per lavoro; è autrice di servizi e reportage sulla vita e la cultura in Cina trasmessi da Tg2 Dossier e da Rai Storia. Autrice anche di reportage sulle comunità cinesi in Italia. Corrispondente temporanea nella sede di Pechino per le testate RAI in sostituzione di Claudio Pagliara, attualmente continua a occuparsi di esteri con particolare attenzione alla Cina e all’Asia.