DIPLOMAZIA E CINA. Nella cultura cinese le parole sono molto importanti e bisogna cercare sempre di farne un uso oculato. La difficoltà a utilizzare alcune parole per descrivere l’invasione della Russa tradisce l’imbarazzo dei funzionari cinesi nel prendere posizione su quanto sta avvenendo
«Nell’oscurità è iniziata una guerra». Questo è l’incipit di una lettera del 26 febbraio 2022 scritta da cinque storici cinesi, accademici che lavorano in alcune delle più di prestigiose università del paese. I firmatari sono Sun Jiang (Università di Nanjing), Wang Lixin (Università di Pechino), Xu Guoqi (Università di Hong Kong), Zhong Weimin (Università Qinghua), Chen Yan (Università Fudan). «Condanniamo fermamente la guerra mossa dalla Russia verso l’Ucraina», affermano i cinque intellettuali, che rivolgono «un fermo appello al governo russo e al presidente Putin perché fermi la guerra e usi invece i negoziati per risolvere le controversie. L’uso della forza non solo distrugge in pochi istanti i frutti del progresso civile e ogni principio di giustizia internazionale, ma potrebbe portare calamità e umiliazioni alla stessa nazione russa» (tr. Anna Di Toro).
Sono bastate due ore e 40 minuti perché la lettera dei cinque accademici sparisse da internet e da WeChat, rimpiazzata dall’avviso: «The WeChat social media URL address of this petition was soon replaced by this illegal content warning». Intervistato dal Guardian il professor Xu Guoqi, uno dei firmatari, ha classificato in modo inequivocabile ciò che l’esercito russo sta facendo in Ucraina, ribadendo quanto già affermato nella lettera.
«Si tratta di un’invasione», ha detto Xu, impiegando una parola, ovvero «invasione» (in cinese ruqin), che il governo di Pechino in questi drammatici giorni ha evitato il più possibile di usare. Quanto sia oculato l’uso del linguaggio presso la diplomazia cinese risulta evidente alla luce di un altro evento. Il 28 febbraio, durante una telefonata con il suo omologo ucraino Dmytro Kuleba, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha dichiarato che «la Cina deplora lo scoppio del conflitto».
In poche ore il termine «deplora», che compariva in un primo tempo nelle agenzie di stampa cinesi e nel comunicato ufficiale, nella traduzione della Cctv si è trasformato in «lamenta ed è profondamente addolorata», come confermato da un ulteriore comunicato ufficiale del Ministero degli Esteri ripreso dall’agenzia di stampa Xinhua (China laments the outbreak of the conflict between Ukraine and Russia and is extremely concerned with the harm to civilians). Con le parole non si scherza.
I tentennamenti e gli equilibrismi da parte della diplomazia cinese sono però evidenti. Il fatto più evidente è che la riluttanza all’uso di determinate parole rivela un ben più profondo imbarazzo nei confronti di ciò che un parlare chiaro, diretto, potrebbe generare. Strano, perché nell’antichità cinese uno dei principi cardine del pensiero etico-politico si basava proprio sul «corretto uso delle parole» (zheng ming).
Per bocca di Confucio i testi classici celebrano a più riprese l’adozione di un linguaggio appropriato come strumento per mettere in atto il buon governo, poiché la ricaduta del «corretto uso delle parole» è così profonda nella società da portare automaticamente ad una radicale trasformazione dei comportamenti: parlare, in fondo, è (quasi come) agire. Schierarsi.
In altri termini, nel chiamare le cose con il proprio nome non ci si limita a rappresentare in modo congruo il mondo, ma si contribuisce a trasformarlo, rendendolo migliore. È alla luce di ciò che le parole dei cinque accademici cinesi assumono un significato ancora più profondo.
Di nuovo, è il professor Xu Guoqi a illustrarci questo significato, chiamando direttamente in causa la propria tradizione culturale. «C’è un’espressione che chiarisce perfettamente ciò che vorrei dire: non si può chiamare ‘cervo’ un cavallo» (zhi lu wei malett, «indicare un cervo e dire che si tratta di un cavallo»).
A cosa si riferisce il professor Xu? L’origine di questa espressione va ricondotta a un resoconto riportato dallo Shiji (Memorie di uno storico) di Sima Qian (c. 145-86 a.C.) che ha come protagonista l’avido e infido Zhao Gao (m. 207 a.C.), capo degli eunuchi di corte. Quando il Primo Augusto imperatore della dinastia Qin morì, Fusu, il primogenito, era l’erede naturale al trono. Huhai (il secondo genito), il Cancelliere Li Si e il Zhao Gao temevano però che l’ascesa al trono di Fusu avrebbe decretato la perdita del loro potere: fu così che i tre redassero un falso decreto che ordinava a Fusu e al comandante in capo dell’esercito, Meng Tian, di suicidarsi.
Huhai salì al trono ma Zhao Gao, non pago di ciò, ben presto ordì un complotto per uccidere l’imperatore e, al fine di testare la fedeltà dei più alti dignitari e dei cortigiani, mese in atto un piano assai astuto. Un giorno si presentò a corte con un cervo, dicendo apertamente all’imperatore che si trattava di un cavallo. Di fronte allo stupore generale, Zhao Gao spinse i presenti a esporsi: alcuni restarono ammutoliti, altri misero in dubbio le sue parole, altri ancora gli dettero ragione. In gran segreto l’eunuco dispose che quanti lo avevano contraddetto fossero assassinati. Vista la crudeltà di Zhao Gao, la schiera dei cospiratori s’infoltì al punto tale che Zhao Gao riuscì a mettere in atto il proprio delittuoso piano.Ecco da dove derivano lo sdegno e l’incredulità dei cinque accademici: dal mancato riconoscimento da parte del loro governo di ammettere che «un cervo è un cervo».
Ah, dimenticavo… Che ne è stato di Zhao Gao? Convinto di far sedere sul trono l’ennesimo sovrano fantoccio, la sua scelta cadde su Ziying, figlio di Fusu, l’erede legittimo che era stato costretto al suicidio. Il fato però volle che fosse proprio un decreto di Ziying a sancire la morte di Zhao Gao e lo sterminio di tutto il suo clan. È proprio vero: con le parole non si scherza.
Di Attilio Andreini
[Pubblicato su il manifesto]