Spesso in Occidente rimaniamo impressionati dalla facilità con la quale la tecnologia è entrata nella vita quotidiana dei cinesi. Certi aspetti di questo tema, per altro, ci riguardano da vicino e faremmo bene a osservare cosa accade in un posto così lontano, ma pur sempre inserito – sebbene con le proprie «caratteristiche» – all’interno di un contesto globale.
Uno degli aspetti più rilevanti è senza dubbio quello del riconoscimento facciale, ormai utilizzato in molte attività e luoghi anche in Occidente, spesso senza neanche il consenso, o quanto meno un parere, della cittadinanza.
GIÀ DA QUALCHE ANNO alcuni analisti cinesi hanno sottolineato che il tempo dimostrerà come l’invasività di dispositivi hi-tech in Cina finirà per creare discussioni e una nuova attenzione ai dati raccolti dalle aziende e dallo Stato da parte della popolazione.
Un conto, infatti, è barattare il controllo quotidiano in cambio di sicurezza percepita, un conto è accorgersi che il controllo diventa fine a se stesso e per niente regolato o esplicitato. È così accaduto che nella città di Hangzhou, metropoli dove opera dalla sua nascita la super corporation Alibaba, per la prima volta nella storia recente cinese, le autorità abbiano proposto una bozza di legge che potrebbe vietare la raccolta di dati attraverso le videocamere a riconoscimento facciale nei complessi residenziali.
Se la legge sarà approvata, Hangzhou potrebbe diventare la prima città cinese a vietare, quanto meno nei compound abitativi, il riconoscimento facciale. Come riportato dal magazine Caixin, «negli ultimi anni, un numero crescente di persone in Cina ha espresso preoccupazione per l’installazione arbitraria di apparecchiature per il riconoscimento facciale nelle aree pubbliche, sostenendo che il paese non dispone di adeguate garanzie per la raccolta e l’uso dei dati personali».
Sul tema molti media cinesi hanno riportato le parole di Lao Dongyan, professore di diritto presso l’Università Tsinghua di Pechino che da tempo si oppone all’uso eccessivo dei software di riconoscimento facciale: «La bozza di Hangzhou – ha detto – ha segnato un passo nella giusta direzione. Non vedo l’ora che altre città seguano l’esempio».
La questione in realtà è dibattuta da tempo, in particolare dall’autunno del 2019, quando un professore universitario denunciò con virulenza l’appropriazione di dati sensibili da parte dell’Hangzhou Safari Park attraverso il riconoscimento facciale (proprio ieri ha ricevuto un risarcimento dopo la sua denuncia).
DA ALLORA IL DIBATTITO si è diffuso soprattutto a livello locale e sulla rete, ma con la pandemia tutto è parso tornare indietro. Durante il lockdown e dopo la prima ondata, la tecnologia ha dimostrato di essere utile al contenimento del coronavirus, rinnovando la sua presenza quotidiana nelle vite dei cinesi. La decisione della municipalità di Hangzhou, tra l’altro, è stata ripresa anche da numerosi media di stato, solitamente intenti a presentare l’utilizzo di riconoscimento facciale e in generale la raccolta di dati biometrici come una cosa altamente positiva per la Cina.
Il fatto che questo impatto della tecnologia venga sempre dipinto a tinto più che rosee, ha determinato per molto tempo anche l’atteggiamento della popolazione di fronte all’irrompere di videocamere, di controllo serrato degli spostamenti tramite app, di modelli predittivi da parte delle polizie locali.
LA DELIBERA DI HANGZHOU, secondo il portale Ifeng, indicherebbe proprio come «l’opinione pubblica stia iniziando a influenzare la politica del governo»: si tratta di qualcosa di clamoroso per come siamo abituati a percepire la Cina.
Il paese e in generale l’Asia, sono da tempo al centro di visioni distopiche e futuriste, come se quei territori fossero il luogo ideale per dipingere futuri dove i cyborg trovano una loro cittadinanza. Forse condizionati dal Giappone, simbolo per eccellenza dell’hi-tech negli anni ’80, la letteratura cyberpunk, ad esempio, ha sempre guardato all’Asia come luogo dove ambientare le proprie trame paranoiche, fatte di scontri tra gruppi criminali e multinazionali.
William Gibson inventa il termine cyberspazio in Neuromante ambientato in Giappone, Neal Stephenson ne L’era del diamante organizza in una Cina divisa in concessioni determinate da appartenenze etniche o ideologiche, il suo mondo determinato e costituito dal diluvio delle nanotecnologie e dai «creatori di materia».
Generalizzando, noi occidentali abbiamo sempre riservato all’Asia e in particolare di recente alla Cina, il ruolo di ricettacolo dei nostri peggiori presentimenti sul futuro. Gli accelerazionisti hanno sempre identificato nella Cina il luogo nel quale la tecnologia non avrebbe incontrato ostacoli.
I CINESI DAL CANTO LORO hanno accettato di buon grado la rivoluzione tecnologica che ha portato la società cinese a vivere già in quella che fino a tempo fa era considerata «fantascienza», ma analogamente hanno sviluppato un senso civico rispetto al reale utilizzo o meno di alcuni aspetti.
A scorgere questo «sentimento» sono stati proprio i boss del mondo hi-tech, probabilmente molto più inseriti nella realtà quotidiana dei funzionari del partito comunista che pare affidino alla tecnologia i loro sogni più reconditi in tema di controllo totale non solo della popolazione, ma anche del territorio e perfino del tempo. Per questo già nel 2019 oltre 20 aziende tecnologiche – come riporta il sito della televisione nazionale cinese – «avevano avviato lo sviluppo del primo standard nazionale per la tecnologia di riconoscimento facciale, segnalando la determinazione del paese a regolamentare l’uso sempre più diffuso della tecnologia in tutti i settori». Per loro il problema è diventato lo stesso dei cittadini: come gestire questi dati.
IL MALCONTENTO di fronte alla possibilità di essere seguiti e riconosciuti costantemente dalle telecamere anche all’interno del proprio compound, infatti, ha portato a una domanda scontata: dove finiscono questi dati che vengono raccolti contro la nostra volontà? A questo proposito gli elementi da tenere in considerazione sono due: in primo luogo molte di queste videocamere sono gestite da aziende private; la Xinhua ha riferito che durante la pandemia, un quartiere che ha installato il sistema di riconoscimento facciale per contenere il coronavirus, non era a conoscenza di dove fossero tenuti i dati e se fossero al sicuro.
IN ALCUNI CASI i leak di questi dati hanno creato grande imbarazzo. «Al momento – ha raccontato un avvocato a Ifeng – non esiste una clausola chiara su chi può raccogliere informazioni personali, quindi in realtà alcuni aziende stanno raccogliendo dati senza il consenso delle persone».
Naturalmente, ricorda il legale, «non hanno mai dichiarato che il riconoscimento facciale sia obbligatorio, ma se non lo accetti, ad esempio, non puoi entrare dalla porta o non puoi pagare il conto in certi negozi: è una forma camuffata di coazione». Il secondo punto discende da questo aspetto: di recente la Cina ha approvato una legge durissima contro l’uso avventuroso dei dati da parte di aziende private.
Come sempre accade in Cina, quindi, anche il fatto di Hangzhou si presta a una duplice lettura: vittoria dell’opinione pubblica o «vittoria» perché il governo ha intenzione di eliminare dal mercato i privati e mettere il suo marchio ufficiale alla raccolta dei dati biometrici?
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.