“Noi restiamo qui”. 22 storie di cinesi in Italia ai tempi del Covid

In Cina, Cultura by Redazione

Trecentomila. E’ il numero dei cinesi che vivono in Italia. Trecentomila volti, trecentomila storia, trecentomila voci che spesso sono state tenute sotto silenzio. O magari non sono state ascoltate, come durante la prima fase della pandemia da coronavirus. Eppure, di questi trecentomila volti, la maggior parte ha scelto di rimanere in Italia, nonostante la situazione epidemica avrebbe potuto suggerire altrimenti.

Come hanno vissuto questo periodo? Cosa hanno fatto? Quali erano i loro pensieri? Sono le domande che hanno portato alla creazione di “Noi restiamo qui – Come la comunità cinese ha vissuto l’epidemia”, un libro (disponibile ora sia in versione cartacea sia in versione digitale) a cura di Cina in Italia, che ha raccolto le storie e le testimonianze di ventidue cinesi, che hanno aperto il loro cuore e condiviso questo pezzetto della loro vita. Vengono da tutta Italia, da Palermo a Torino, e fanno tutti lavori diversi. Tramite i loro testi si può entrare nella comunità cinese e vedere con i propri occhi se davvero si tratta di una comunità “chiusa”, come spesso si dice.

China Files propone (ringraziando per la gentile concessione Cina in Italia), due brevi estratti del libro, presentato giovedì 1° ottobre alle ore 18,30 presso l’hotel The Hive di via Torino a Roma.

Qui di seguito, sotto la copertina, due delle 22 storie di “Noi restiamo qui – Come la comunità cinese ha vissuto l’epidemia“.

Noi restiamo qui, nonostante la paura
Hu Lanbo
In Italia dal 1989
Professione: Scrittrice
Città: Roma

Laureata in letteratura francese alla Sorbonne, nel 2001 ha fondato la rivista bilingue Cina in Italia. Dal 1993 ha pubblicato una serie di libri tra cui: Da Pechino a Roma (2015), Il sole delle otto del mattino (2017), La primavera di Pechino (2019). Nel 2014 le è stato conferito il titolo di Cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Noi restiamo qui, in questa terra chiamata Italia.
Non è che non abbiamo paura, è che non potremmo sopportare di lasciarla.
Proprio come accade in una famiglia, in caso di catastrofe non vogliamo separarci dalle persone più care, ma vogliamo affrontare i momenti difficili al loro fianco. Come durante i giorni più freddi dell’anno, vogliamo stringerci l’un l’altro, darci un po’ di calore. Ma l’inverno non dura per sempre, quindi aspettiamo insieme la primavera!
Non è che non abbiamo paura, è che amiamo l’Italia come se fosse la nostra patria e abbandonarla ci spezzerebbe il cuore.
I nostri antenati arrivarono qui in tempi remoti. Sembra che dopo la Prima Guerra Mondiale un gran numero di cinesi si spostò in Europa per costruire delle ferrovie. Molti di loro decisero di rimanere e, tra questi, alcuni vennero in Italia. Qui trovarono una dimensione che gli permetteva di continuare a vivere. Di generazione in generazione, i cinesi non smisero mai di attraversare l’oceano per raggiungere questa terra, che una volta per gli immigrati significava speranza.
La Cina ha conosciuto la povertà. Siamo arrivati qui con abiti malconci addosso e bagagli logori tra le mani. L’Italia ci ha accolti, restituendo ai nostri predecessori un sorriso e un posto felice in cui vivere e lavorare.
Ci sono sessanta milioni di cinesi disseminati in ogni angolo del mondo e forse noi che siamo in Italia siamo i più felici: non perché la nostra situazione economica sia migliore, ma perché siamo nel Paese più accogliente, più umano, più amorevole, con i paesaggi più incredibili, con il cibo più gustoso e il vino più buono. Non è che non abbiamo paura, è che temiamo che, se ce ne andassimo, rimarreste soli in questa notte così lunga e sentireste la nostra mancanza.
Non è che non abbiamo paura, è che sappiamo che ci saranno molte altre difficoltà e, se noi ce ne andassimo, la vostra forza forse non basterebbe.
Ma noi non ce ne andiamo. Stiamo facendo donazioni agli ospedali specializzati in malattie infettive della Lombardia e di Roma, stiamo inviando mascherine ai bambini malati dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma; stiamo anche invitando tutti gli immigrati cinesi a far arrivare le mascherine in Italia, incartate in piccoli pacchetti, così che nessuno possa intercettarle lungo il tragitto, dal momento che ora valgono come l’oro. L’Italia riceve costantemente materiali di assistenza provenienti da Zhejiang e Shanghai e noi stiamo cercando di far arrivare da tutta la Cina abiti protettivi e mascherine per i medici. Anche se restiamo in casa, non smettiamo mai – nemmeno per un giorno – di avere contatti con la nostra patria, così potremo fornire tutto ciò di cui c’è bisogno in Italia.
Il fatto che la Cina stia supportando gli ospedali italiani inviando materiali sanitari e team di esperti, non solo porta a voi un messaggio di speranza, ma dà forza a noi immigrati cinesi. La nostra patria non ha smesso di soffrire, le sue ferite sanguinano ancora, ma nonostante questo sta tendendo la sua mano per aiutare il mondo. Siamo orgogliosi del nostro Paese, se abbiamo la nostra patria a guardarci le spalle, ci sentiamo invincibili e allora possiamo trasmettere quella stessa forza agli italiani.
La Cina non ha dimenticato gli aiuti dell’Italia nelle situazioni di emergenza: ogni volta che si è presentata una calamità, voi siete accorsi al nostro fianco. Nel 2008, dopo il terremoto nel Sichuan, un’équipe di quattordici medici italiani ha aiutato a salvare novecento vite. Questa volta sono i medici del Sichuan a essersi mobilitati per prestare soccorso all’Italia. Hanno appena lasciato Wuhan, non hanno fatto nemmeno in tempo a riprendersi dalla fatica di aver salvato così tanti malati e si sono offerti spontaneamente di venire in Italia. La figlia di una di loro ha detto: “Mamma, se andrai in Italia sarò fiera di te!”. Questa non è una visita di piacere in un Paese meraviglioso, ma una pericolosa missione umanitaria di salvataggio.
Essere pieni di amore e di umanità, questa è una caratteristica che accomuna italiani e cinesi. Siamo i Paesi in cui l’epidemia si è diffusa maggiormente, siamo fratelli di sventura. La diffusione del virus non è colpa dei nostri due Paesi: abbiamo solo avuto la sfortuna di essere i primi a cui è toccato e ogni gesto, ogni parola crudele rappresenta un’ignobile vergogna! Il mondo dovrebbe ammirarci per il coraggio con cui abbiamo gestito questa situazione.
Gli amici si riconoscono nel momento del bisogno, così quando tutto questo sarà finito ci ritroveremo più vicini che mai, mano nella mano.
I nostri popoli sono connessi, la devastazione causata dal virus passerà. Avete sempre detto che noi cinesi siamo una comunità chiusa: a dirla tutta non ci siamo mai capiti fino in fondo, noi non siamo mai stati di tante parole, ma il nostro cuore appartiene all’Italia.
Noi restiamo qui e non è che non abbiamo paura.
Ma ogni giorno aspetteremo le 18:00 per cantare insieme dai nostri balconi, aspetteremo le 21:00 per accendere le luci nel buio, aspetteremo con voi lo sbocciare della primavera e il calore del sole. Quando arriverà l’estate, il sole splendente illuminerà il mondo intero e allora potremo tornare nel nostro Paese, da coloro che amiamo e dalla nostra adorata terra.

(16 marzo 2020)

 

In compagnia dell’équipe medica
Shi Yangshi
In Italia dal 1990
Professione: interprete e attore
Città: Milano

Traduttore esperto cinese-italiano nonché interprete simultaneo cinese-italiano in diversi importanti meeting. Attore di cinema, TV e teatro, ha assunto l’incarico di assistente alla regia e attore per la serie TV Una famiglia di Wenzhou o Legend of Entrepreneurship, ma in primis è il protagonista dello spettacolo teatrale bilingue Tong men-g (ArleChino: traduttore e traditore di due padroni ), il primo in Italia a raccontare la storia autobiografica di un immigrato cinese alla ricerca delle sue radici; è autore, inoltre, del romanzo autobiografico Cuore di seta: La mia storia italiana made in China. Si impegna da molti anni nella lotta degli immigrati cinesi per ottenere un riconoscimento della propria voce all’interno della società italiana. Nel 2019, la Fondazione Italia-Cina gli ha conferito il “China Award Leone d’Oro per i contributi artistici e culturali”.

Il 23 febbraio ho ricevuto l’invito a partecipare a un programma televisivo di La7 per parlare del nuovo coronavirus e di come prevenirlo. Fra gli ospiti, c’era anche il viceministro della Salute Pierpaolo Sileri, al quale successivamente è stata diagnosticata, ahimé, l’infezione. Ho chiesto al viceministro: “Secondo lei, qual è la base per poter sconfiggere il nuovo coronavirus?”. Lui, da buon cattolico, ha risposto: “La fiducia negli altri”. Vivo in Italia da più di trent’anni, sono un “banana” (Giallo fuori e bianco dentro: “Banana” è un termine dispregiativo utilizzato dai cinesi per riferirsi a una persona cinese troppo “occidentalizzata”, ndr), comprendo appieno il principio della ricerca di un terreno comune pur conservando le differenze, ma se dopo questo periodo storico dovessero ancora sussistere sospetto e diffamazione reciproci, allora avremo perso la battaglia. Per questa ragione, in diretta TV ho stretto saldamente la mano del viceministro e del presentatore e a gran voce ho detto insieme a loro per tre volte: “Fiducia negli altri”, per poter trasmettere al pubblico il concetto che anche la fiducia e la gentilezza rappresentano un’altra importante arma per contrastare il virus.
In Lombardia, dove vivo io, la situazione epidemica è stata più seria e io ho fatto quel che ho potuto per aiutare tutta la mia comunità. I carabinieri lombardi mi hanno chiesto se potevo trovare qualcuno che donasse o acquistasse materiali protettivi e io, con l’aiuto dell’Associazione dei cinesi del Zhejiang emigrati a Milano, sono riuscito a trovare alcuni contributi provenienti da tutta la Cina. Li ho aiutati a trovare materiali protettivi per 300.000 euro, ho perfino chiesto aiuto alla Regione, ma non è bastato: poiché i carabinieri non potevano accettare fatture emesse da aziende non italiane, alla fine non se ne è potuto fare nulla. Mi è dispiaciuto molto che, nonostante la situazione di grande emergenza, le istituzioni fossero strozzate dalla burocrazia.
Alla fine di marzo, io e mio marito Angelo abbiamo lanciato sulla piattaforma GoFundMe una campagna di sostegno all’ospedale di Pesaro Urbino della regione Marche, la terza regione più colpita dall’epidemia in Italia e con maggiore carenza di materiali e personale. Ciò che mi ha  particolarmente colpito è che molti compatrioti cinesi volevano fare donazioni in gran quantità, ma non riuscivano ad accedere alla piattaforma dalla Cina, così ho potuto solo chiedere alla mia amica cinese che vive in Italia, Xiao Maomi (nickname), di raccogliere i soldi tramite WeChat, dopodiché convertire in euro i soldi che aveva raccolto e depositarli sul conto di GoFundMe. Sono stati raccolti in totale 6.000 euro provenienti da ogni parte del mondo; certo, non sono paragonabili ai milioni raccolti dalle celebrities, ma ci hanno dato comunque una speranza in più, oltre che essere stati molto importanti per l’ospedale. Una mattina, Giorgio Armani ha chiamato mio marito, esprimendogli ammirazione e incoraggiamento.
Dopo lo scoppio dell’epidemia in Italia, dalla Cina sono arrivate in tutto tre équipe mediche, le quali hanno portato con sé materiali per affrontare l’emergenza, oltre ad un’importante esperienza da condividere con i colleghi italiani sulla lotta al virus. La seconda équipe è arrivata a Milano il 18 marzo. Prima del suo arrivo, era già stata diffusa la richiesta di interpreti. Anche senza alcun compenso, non me la sentivo di rifiutare, dovevo scendere in campo.
Ho accompagnato il gruppo di esperti cinesi la task force per l’emergenza della Regione Lombardia, all’ospedale Sacco di Milano e all’ospedale modulare ricostruito presso la Fiera di Milano. Nell’arco di una decina di giorni, ho scoperto che non solo dovevo fare da interprete, ma anche assumere il ruolo di mediatore culturale, ricevendo interviste dalla parte italiana e impegnandomi dietro le quinte per portare avanti il lavoro di coordinamento e comunicazione.
Poiché sono nato in una famiglia di medici, sono molto sensibile agli ospedali e ai pazienti, ma quando ho dovuto scegliere se accompagnare la delegazione cinese presso il reparto di terapia intensiva, ho avuto un pizzico di paura. Ho visto che all’Ospedale Sacco, a causa dell’eccesso di pazienti, anche i corridoi delle terapie intensive erano pieni di attrezzature mediche, ma in ogni ingresso al reparto si era mantenuto uno spazio separato e il lavoro medico si portava avanti con ordine.
Le tute protettive del personale medico italiano, sebbene in linea con gli standard di protezione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, erano un po’ differenti da quelle del personale medico cinese e fuori dalle camere a pressione negativa dottori e infermieri non avevano tutto il corpo ben protetto, ma collo e braccia scoperti. L’esperienza in prima linea in diverse occasioni mi ha fatto comprendere più da vicino l’eroismo di medici e infermieri, anche se loro rifiutano di essere chiamati eroi: dicono che in tempi normali, quando difendono i loro diritti, non ottengono molto sostegno, mentre in questa occasione di emergenza hanno solo fatto il loro dovere.
In genere un interprete, prima del lavoro di traduzione, ha il tempo di prepararsi e anche l’organizzazione può fornirgli alcuni materiali. Ma questa esperienza di affiancamento alla delegazione cinese mi ha fatto rendere conto che non ero abbastanza preparato dal punto di vista tecnico. Durante la discussione fra gli esperti dei due Paesi presso l’Ospedale Sacco di Milano, ho incontrato un problema nella traduzione di termini tecnici. I medici italiani utilizzavano solo cinque tipologie di farmaci e protocolli consentiti dall’Unione europea per curare il nuovo coronavirus. Sapevano che la Cina in questo campo ha una ricca esperienza e molti dati; inoltre i medici cinesi stavano sperimentando una nuova tipologia di farmaci, pertanto era proprio a questi e a nuovi metodi di cura che erano particolarmente interessati. Ma io non conoscevo questi farmaci e le informazioni che gli esperti cinesi fornivano includevano anche termini tecnici di medicina tradizionale cinese per la fase di recupero. Non riuscivo a tradurre, così ho immediatamente contattato il dottor Wen Zhenhua, cinese di seconda generazione residente in Italia, in servizio nei pronto soccorso durante il periodo “Covid”.
Nonostante avesse appena finito il turno di notte e fosse molto stanco, si è mostrato subito pronto a mettersi al lavoro. Purtroppo, comunicare era ancora molto difficile, perché il primario della delegazione parlava cinese con l’accento del Zhejiang e in più indossava la mascherina: a volte non mi sembrava neanche parlasse in cinese! Gli esperti italiani, invece, con la loro pronuncia maccheronica, chiedevano di alcuni nomi di farmaci, a me del tutto sconosciuti, in inglese, quindi per me era tutta una lingua aliena. Alla fine, proprio grazie all’aiuto del dottor Wen connesso on line e di un medico della delegazione cinese che parlava inglese, tutti sono riusciti a comprendersi. Ciò che ci rendeva orgogliosi era che la vecchia immagine di una Cina arretrata non esisteva più, ora tutti potevano vedere l’avanguardia e l’efficienza della tecnologia cinese.
Inoltre, c’è stato anche un altro episodio che mi ha riempito di orgoglio. Prima che il team di esperti cinesi lasciasse l’ospedale modulare, ho chiesto umilmente loro di registrare un breve video per gli italiani. Nel video non c’erano cliché, tutti in coro dicevano di indossare le mascherine, lavarsi diligentemente le mani, ridurre gli assembramenti e che il virus è il nostro nemico comune. Questo video non è si è diffuso solo sui social in Italia, ma un amico argentino, dopo averlo visto su Facebook, mi ha chiesto se poteva diffonderlo sui social media argentini. In quel momento la situazione epidemica in Argentina non era seria e non le si dava importanza. Gli ho inviato il video, con la sincera speranza che potesse aiutare tutti.
In realtà, io sono legato a Wuhan dal destino, perché nel 2006 ho assistito il regista Gianni Amelio nelle riprese del film La stella che non c’è. Ricordo il traffico della città, il viavai di gente, i xiaochi (snack) mangiati per strada insieme alla protagonista Zhou Ting. Sono stato testimone di come per molti italiani la Wuhan di oggi, dopo i settantasei giorni di lockdown, rappresenti una speranza.
Sono anche piuttosto preoccupato per il futuro, perché questa situazione mi ha fatto rendere conto che le mie fonti finanziarie sono legate alla Cina, non ho più un lavoro di interprete simultaneo e inoltre nuovi film e programmi hanno fermato la produzione.
Se non fosse per le magre entrate derivanti dal teatro, sarei senza impiego. Credo che i cinesi emigrati in Italia, in ogni settore, abbiano tutti subìto un duro colpo. Ma io continuo sempre a mantenere in equilibrio la mia pace interiore. Negli ultimi anni, facendo da ponte nella comunicazione fra i due Paesi, ho sperato di eliminare i pregiudizi degli italiani nei confronti dei cinesi. Il 27 gennaio, durante la cerimonia per la Giornata Internazionale della Memoria delle vittime dell’olocausto, il Presidente Mattarella ha dichiarato: “Abbiamo la responsabilità di lavorare insieme per sradicare il
prima possibile il virus della discriminazione razziale!”. Credo che questo sia l’obiettivo sul quale sia Cina che Italia dovrebbero concentrarsi in futuro. Possano gli aspetti oscuri che questa epidemia globale ha portato alla luce condurci ad una splendida nuova alba.
Trent’anni fa, quando avevo undici anni, mia madre da sola mi portò in Italia. La Cina allora era ancora povera, sebbene sulla via  delle grandi riforme. I miei genitori pensavano che in Italia potessimo migliorare la nostra condizione economica. In quel momento di sicuro pensavano che almeno avrebbero potuto garantire a me un futuro migliore. Per noi della seconda generazione di cinesi emigrati in Italia, il percorso di crescita e integrazione è più facile a dirsi che a farsi. Noi desideriamo ardentemente il riconoscimento di un’identità nuova, le persone che non sono mai uscite dalla Cina ci considerano dei “banana”, “gialli fuori e bianchi dentro”. Ma noi alla fine chi siamo? A dirla tutta, interiormente non ci sentiamo molto “bianchi”, ma non ci sentiamo nemmeno così “gialli” esteriormente. Anni fa partecipai al programma Le Iene del canale TV Mediaset: a quel tempo non capivo ancora bene che tutti i media, in ogni parte del mondo, potessero essere manipolati, e dal momento che non riuscivo a realizzare la mia idea di cercare un terreno comune preservando le differenze, ne uscii rapidamente.
Alla fine di febbraio, basandomi sull’idea che “non entrando nella caverna della tigre non si può essere una tigre”, ho partecipato ad alcuni programmi TV italiani. Nonostante sapessi che il punto di vista di alcuni di questi programmi era anti-cinese e che avevano bisogno di me come bersaglio dal vivo, ho voluto portare il beneficio del dubbio, dati e opinioni nel cosiddetto campo nemico.
In questo tipo di programmi, l’avversario, con una visione stereotipata, mi trattava sempre come un tipico “cinese”. Ogni volta che ci collegavamo in diretta, per me era come salire sul ring, in superficie sorridevo e affrontavo la disputa contro quei signori, tentando una reciproca comprensione. In realtà, ogni volta era dura trattenere la rabbia, potevo solo digerirla pian piano tornando a casa. Quella spiacevole sensazione di disagio mi ricordava l’amarezza delle persone dello Shandong emigrate, che non riescono a mangiare i ravioli a Capodanno.
Mio padre mi diceva: “Nel campo nemico vuoi cambiare gli altri”, ma ho scoperto che cambiare gli altri è molto difficile. Alla fine ho deciso di andarmene, almeno potevo stare in pace con me stesso.
Come molti cinesi di seconda generazione, in cuor mio penso al mio Paese natale come il mio “Paese degli Avi”. Ovviamente tra di noi c’è anche chi vede l’Italia come madrepatria, solo che non vuole dirlo. Per quanto mi riguarda, la Cina è la mia terra d’origine degli Avi Benedetti, ma l’Italia è come una madre adottiva amorevole, tollerante e gentile con me. Sono convinto che i miei connazionali che scelgono di rimanere qui e mettere radici, che
siano bambini, adulti o anziani, quando affrontano i conflitti culturali fra Cina e Italia in cuor loro soffrono tutti, siano essi forti o deboli. Questo è il prezzo da pagare per le persone che vivono in un contesto multiculturale, è il tema dell’immigrazione che l’intera umanità contemporanea deve affrontare. In tale contesto, non manca la questione delle differenze ideologiche fra il Paese in cui si risiede e il Paese natale. Io ci rifletto ogni giorno, l’epidemia di nuovo coronavirus mi ha insegnato a scegliere di affrontare i fatti con maggiore tolleranza, a non avere fretta di giudicare o escludere le cose o i punti di vista per me difficili da comprendere, a esercitarmi perlomeno ad ascoltare le opinioni in apparenza ostili, a sforzarmi di lottare per stabilire una dignità a doppio senso, per un dialogo equo.
In questo momento, nella mia testa sembra risuonare la melodia Honghu Waters, wave upon wave, eseguita dalla pianista Ju Jin nella sala del Quirinale la sera del 13 febbraio; ogni “movimento dell’onda” cinese renderà inevitabilmente ancor più bella quella luce dell’alba italiana.