Cos’è la classe media in Cina? Ce lo siamo chiesti nel primo numero di L’Asia è vicina una rivista per iPad focalizzata sull’Asia i cui testi sono disponibili anche per tutti gli altri tablet. E di cui oggi vi regaliamo un articolo. E’ una scommessa che abbiamo fatto con il manifesto. Speriamo abbia lunga vita, lunedì il prossimo numero.
Si chiama “Colomba” (Feige), è il marchio di biciclette cinesi per definizione. Venticinque anni fa, se ne avevi una e la cavalcavi indossando un bel paio di jeans blu, eri “classe media”. Adesso, nelle grandi città, è roba per stranieri innamorati del vintage. Oppure per anziani esuberi di quel gigantesco processo di smantellamento che svuotò le grandi imprese di Stato negli anni Novanta.
Gli uni e gli altri sono costretti ora a schiacciarsi contro i muri che percorrono gli hutong pechinesi, quando il cinese del nuovo corso – funzionario, businessman, o entrambe le cose – entra cocciutamente nei vicoli con la sua Audi nera. Non si può neanche maledirlo guardandolo negli occhi, perché i finestrini sono di solito oscurati.
È lui la nuova classe media. Ma lo si può definire solo attraverso l’aneddoto, perché il ceto a cui appartiene è nebuloso, dai confini incerti, in divenire.
Chi è classe media, oggi, in Cina? Tra i 9mila e i 35mila dollari l’anno: sono questi i due estremi di reddito che una recente ricerca McKinsey indica come confini della nuova middle-class.
Entro il 2022 – si dice – il 75 per cento dei cinesi che vivono in città avrà redditi compresi tra le due cifre di cui sopra, per un potere d’acquisto simile a quello degli italiani di oggi. A conti fatti, il ceto medio dovrebbe comprendere tra i 700 e gli 800 milioni di cinesi entro quella data.
Ma c’è di più. La parte più ricca di questo ceto, situata tra i 17mila e i 35mila dollari di reddito e orientata ai consumi voluttuari, spodesterà in termini numerici la fascia bassa, quella che sta in bilico nella zona cuscinetto tra povertà e sogni di grandezza, che spende solo per i beni primari e risparmia in prospettiva di una vecchiaia incerta. Si creerà quindi un “nuovo mainstream” – dice la ricerca McKinsey – cioè uno spostamento di massa dai consumi di base verso quelli più sofisticati: elettronica, arredamento, lusso in genere (cioè abbigliamento, orologi, gioielli, accessori).
La aspettiamo tutti – diciamocelo – questa nuova middle-class cinese iperconsumista. Così potremo finalmente inondarla con le nostre merci belle ma costose e invertire il processo che per trent’anni ha visto la paccottiglia a buon prezzo made in China invadere l’Occidente: rivalutando, sì, i nostri salari reali; ma facendo al tempo stesso chiudere le fabbriche e togliendoci il lavoro.
La aspetta anche il governo di Pechino, ormai consapevole del fatto che il vecchio modello “fabbrica del mondo” è al capolinea: ha portato 600 milioni di sudditi del Celeste Impero al di sopra della soglia di povertà, ma ha esaurito il suo slancio e devastato l’ambiente; ha creato nuovi ricchi ma ha acuito la diseguaglianza sociale, ha messo tanta liquidità in circolazione ma anche creato bolle speculative inquietanti.
Oggi ci vuole una riconversione di tutta l’economia. C’è bisogno di un vero mercato interno, cinesi che acquistino merci ad alto valore aggiunto da altri cinesi (possibilmente sempre più) o all’estero (possibilmente sempre meno): automobili non inquinanti, tecnologia, beni immateriali. Dunque, la classe media con i suoi consumi evoluti.
La parola d’ordine del “grande sogno cinese”, lanciata dalla nuova leadership di Xi Jinping, appare proprio questo: l’impresa prometeica di costruire un enorme ceto medio soddisfatto, per ricreare quel patto sociale che garantisca il mantenimento del potere da parte del Partito.
Soldi e soddisfazione autocompiaciuta da una parte, controllo della stanza dei bottoni dall’altra; un pizzico di confucianesimo e una spruzzata di nazionalismo per tenere insieme anche ideologicamente il corpaccione sociale ed ecco lo sviluppo armonioso che riporterà la Cina dove le compete: al centro del mondo.
Il principale strumento per realizzare il sogno è stato identificato in un’altra formula, quella che il nuovo premier Li Keqiang ripete un giorno sì e l’altro pure: Chengzhenhua, cioè “urbanizzazione delle città medio-piccole”. Consiste nel trasferire gradualmente 400 milioni di contadini residuali in città sostenibili – non le attuali metropoli al collasso – dove, accedendo a nuovi servizi e opportunità e grazie ai propri consumi, trasformino l’economia trasformando in parallelo se stessi. Un processo governato dall’alto nel big-bang iniziale e che poi, almeno nelle intenzioni della leadership, dovrebbe autoriprodursi.
Così già si magnifica un futuro in cui balinhou e jiulinhou (i nati rispettivamente negli anni Ottanta e Novanta) – più propensi a consumare “scegliendo”, più istruiti e cosmopoliti, nonché meno ossessionati dall’insicurezza rispetto ai loro padri e zii – estendano a tutto il Paese un nuovo modello Cina fondato sui consumi interni: dalle quattro città di primo livello (Pechino, Shanghai, Shanzhen e Guangzhou) a quelle di secondo e terzo; dalla costa occidentale alle province orientali.
Tutto lineare, tutto armonioso? Non necessariamente. Che la nuova borghesia stia prendendo piede lo dimostra infatti pure l’evoluzione del conflitto. In contemporanea con lo storico superamento della popolazione cittadina rispetto a quella rurale, si sono trasformati anche gli “incidenti” (leggere: proteste, rivolte, scontri).
In Cina ce ne sono ogni anno circa cinquantamila per le statistiche ufficiali, oltre centomila secondo fonti indipendenti; nel 2012, quelli dovuti a questioni ambientali sono stati più numerosi e frequenti di quelli causati dagli espropri di terreni o dalle demolizioni di cui sono vittima i contadini o il proletariato urbano. Il che significa che la qualità della vita è diventata la principale fonte di conflitto in Cina.
Protagonisti sono i nimby secondo caratteristiche cinesi, la versione locale di quel ceto medio planetario che non vuole la fabbrica chimica dietro casa ma ritiene comunque necessario che sia fatta, purché da qualche altra parte. Cresce la loro insoddisfazione, il loro rancore di classe nata con il boom degli ultimi trent’anni e che ora si trova avvelenata dall’aria che respira o dal cibo che mangia.
Dati ufficiali stimano che circa l’80 per cento dei consumatori del nuovo ceto medio non si fidano delle produzioni locali e siano disposti a pagare di più pur di avere cibo sicuro; alla faccia della nuova classe patriottica che dovrebbe consumare ottimisticamente made in China. Altri esportano valuta all’estero per timore di un improvviso scoppio della bolla immobiliare. È una diserzione strisciante, più che una ribellione.
Il sistema Cina è in grado di corrispondere alle esigenze inedite della sua ruspante middle-class? Una brutta gatta da pelare per la leadership cinese, stretta tra i bisogni sempre più complessi del nuovo ceto medio e l’esasperazione di tutti coloro che borghesia ancora non sono. E forse non saranno mai.