In caso di disastro o calamità naturale, dicono gli esperti, le prime 72 ore sono cruciali. Quello è il lasso di tempo entro il quale la probabilità di salvare vittime intrappolate tra le macerie è più alta. Alle 11 e mezza locali di martedì 28 aprile, anche il calcolo delle probabilità inizierà a remare contro le operazioni di salvataggio che faticosamente, in questi tre giorni, sono state portate avanti in un Nepal letteralmente in ginocchio dopo la scossa da 7,9 gradi sulla scala Richter del 25 aprile. Il terremoto in superficie ha rimanifestato l’evento sismico causato dalla lenta collisione tra la placca indiana, che spinge verso nord, e quella eurasiatica, verso sud: lo stesso scontro che nelle ere geologiche ha formato la catena montuosa dell’Himalaya continua ancora oggi, sconquassando ciclicamente l’Asia meridionale con una violenza che ora, nella – come si dice — «era digitale», possiamo immaginare meglio grazie ai video caricati su Youtube, in questi giorni onnipresenti nel racconto telegiornalistico mondiale. Attenendoci alla matematica, torna utile ricordare che il terremoto dell’Aquila del 2009 è stato misurato in 5,8 gradi sulla scala Richter; le scosse di assestamento che si susseguono da sabato in Nepal e riverberano in Cina, India e Bangladesh, di norma superano i 6,5 gradi.
Nella serata di ieri le autorità nepalesi hanno aggiornato il bilancio delle vittime certe a oltre 4mila, mentre gli sfollati superavano i 100mila. L’elettricità e i collegamenti telefonici non sono ancora stati ripristinati e le vie di comunicazione tra i centri urbani principali e le migliaia di villaggi del Nepal rurale sono in gran parte distrutte: anche per questo si teme che la conta dei deceduti proseguirà nei prossimi giorni, man mano che le autorità locali riusciranno a mettersi in contatto con le aree più colpite dal sisma. Le notizie frammentarie che arrivano dal distretto di Gorkha – abitato da 270mila persone, secondo le stime – raccontano di interi villaggi rasi al suolo, altri che hanno subito danni consistenti al 70 per cento delle abitazioni. Stessa situazione nel distretto di Lamjung, epicentro della prima scossa.
In tutto il paese le strutture ospedaliere, impreparate a un’emergenza di queste proporzioni, non sono in grado di prestare le cure necessarie; mancano letti, medici, medicine e a Kathmandu il personale medico è costretto ad operare letteralmente per strada.
Gli aiuti della comunità internazionale in questi primi giorni si sono concentrati soprattutto sulle operazioni di salvataggio, con personale specializzato arrivato da ogni angolo della terra: dall’Australia all’Unione Europea, dagli Usa ai vicini asiatici, tutti hanno inviato aerei, elicotteri e squadre di soccorso, personale medico, medicine e attrezzature per operare in condizioni di emergenza, cibo, coperte, generatori di corrente elettrica, sistemi per la depurazione dell’acqua, in una gara di solidarietà accompagnata da promesse di fondi per la ricostruzione da elargire una volta che la polvere si sarà posata, le pire funerarie si saranno spente e l’entità del danno e della disperazione sarà in qualche modo misurabile.
Ci vorranno ancora alcuni giorni per fare il punto dei danni subìti su tutto il territorio e se nell’immediato è categorico scongiurare il rischio di epidemie tra i feriti costretti ad accamparsi per strada — con minime notturne che in campagna scendono fino a pochi gradi sopra lo zero — fornendo acqua e cibo agli sfollati, sul lungo termine il problema sarà ridare un riparo a chi ha perso tutto. Secondo Unicef, solo i bambini colpiti dal sisma sono più di un milione, mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità, in un comunicato, ha fatto sapere che servono immediatamente almeno cinque milioni di dollari per far fronte all’emergenza sanitaria, oltre a squadre sanitarie specializzate che si aggiungano alle venti équipe internazionali che già hanno raggiunto Kathmandu e che lo stesso Oms sta coordinando in collaborazione col Ministero della Sanità nepalese.
Il terremoto ha colto lo stato himalayano proprio nel picco della stagione del trekking, quando l’affluenza dei turisti — un milione all’anno, secondo le stime ufficiali di Kathmandu — è maggiore. Tra le vittime ci sono anche quattro italiani, confermati nei giorni scorsi dalla Farnesina. Si tratta di Oskar Piazza e Giliola Mancinelli, due speleologi del Soccorso alpino, travolti da una valanga in un villaggio alle pendici dell’Himalaya, e Renzo Benedetto e Marco Pojer, uccisi da una frana durante un trekking nella Rolwaling Valley, poco a nord di Kathmandu.
L’Italia, ha annunciato il ministro Gentiloni, ha stanziato 300mila euro di fondi per aiutare il Nepal, che confluiranno negli sforzi della Croce Rossa Internazionale.
[Scritto per il manifesto; foto credit: cnn.com]