Nello scontro Cina – Stati Uniti, il NASDAQ chiede maggiore trasparenza a Pechino

In Cina, Economia, Politica e Società by Redazione

Lo scorso 20 maggio, appena un giorno prima dell’inizio delle ‘Due Sessioni’ da poco concluse, il Senato degli Stati Uniti ha dato il via libera all’Holding Foreign Companies Accountable Act (S.945). Una volta convertito in legge, l’atto modificherà il Sarbanes–Oxley Act (meglio noto come Public Company Accounting Reform and Investor Protection Act del 2002 o SOX), dando il potere alle autorità americane – tra cui la Securities and Exchange Commission (SEC) e la Public Company Accounting Oversight (PCAOB) – di controllare, indagare e penalizzare o semplicemente rimuovere le società straniere quotate nella borsa statunitense. La spinta finale per l’approvazione dell’atto, presentato nel marzo 2019 dal Senatore repubblicano John Kennedy e “sponsorizzato” anche dal democratico Chris Van Hollen, è stata probabilmente la frode perpetrata da Luckin Coffee, con cui la startup cinese ha falsificato gli introiti generati dalle vendite. Fallito il tentativo da parte di Luckin di scendere a compromessi con le autorità americane e cinesi, in data 19 maggio il NASDAQ ha annunciato che proseguirà nella rimozione del gruppo cinese dalla borsa americana.

Se da un lato questa proposta di modifica sembra rivolgersi a tutte le aziende straniere, risulta di fatto chiaro che il bersaglio principale siano le compagnie cinesi quotate. In particolare, tra i requisiti inclusi nella bozza, i punti quattro e cinque richiederanno, in breve:

  • il nome di ogni ufficiale del PCC che sia parte del CDA dell’emittente o dell’entità che opera a nome dell’emittente;
  • se l’atto costitutivo dell’emittente includa riferimenti di ogni tipo al PCC.

Nonostante il sentimento anticinese abbia raggiunto un massimo storico negli Stati Uniti, la proposta, in quanto tale, non è da considerarsi “ingiusta”, soprattutto se si considera che alle compagnie straniere non è permesso quotarsi nei mercati azionari cinesi. Questo atto normativo ha come obiettivo primario quello di costringere le compagnie cinesi a rispettare le regole del “gioco”, con particolare riferimento ai concetti di trasparenza aziendale e fiscale. Spesso, infatti, le compagnie cinesi quotate nelle borse americane hanno la tendenza ad appoggiarsi a società nazionali di contabilità con il risultato che i loro registri risultino generalmente opachi.

Nonostante le informazioni aggiuntive e i punti sopra indicati, resta ancora da vedere se il SOX verrà effettivamente modificato. Detto ciò, visto il sentimento generale di malcontento nei confronti di Pechino, in aggiunta al fatto che a novembre di quest’anno si terranno le presidenziali negli Stati Uniti, le autorità e i politici americani saranno più che felici di far rispettare questa legge alla lettera, con Baidu e Alibaba tra i bersagli più scontati dei prossimi controlli. Tuttavia, considerando che tutte le compagnie cinesi grandi abbastanza per quotarsi in borsa hanno legami diretti con diverse componenti del PCC, sarà interessante vedere come queste ultime convinceranno le autorità americane di poter operare scevre da interessi politici.

Partendo da questo ultimo punto, sembra abbastanza chiaro che le compagnie cinesi non saranno effettivamente in grado di quotarsi nei mercati azionari americani. A livello generale, questa possibilità eliminerebbe un canale preferenziale di fundraising in dollari americani sfruttato fino ad ora. Rimarrebbero dunque tre giurisdizioni straniere tra cui scegliere: Londra, Hong Kong e Singapore.

Londra non sarà facile in quanto il Regno Unito è una giurisdizione occidentale con mercati maturi. Inoltre, qualora Washington approvasse questa modifica, la capitale britannica probabilmente seguirebbe la stessa strada, considerando la crescente interdipendenza tra i due, anche a seguito della Brexit. Naturalmente, sussiste sempre la possibilità di utilizzare lo Shanghai-London Stock Connect per effettuare quotazioni secondarie nel mercato britannico. Tuttavia, l’enorme quantità di ostacoli normativi da superare sembrano lasciare solamente Hong Kong e Singapore come scelte percorribili.

Per quanto riguarda Hong Kong, a seguito della decisione del PCC di bypassare i legislatori locali introducendo la nuova e discussa legge sulla sicurezza nazionale, la situazione è destinata a peggiorare irrimediabilmente. Il 22 maggio, l’indice Hang Seng è sceso del 5,6%, facendo registrare il più grande calo da luglio 2015. L’economia di Hong Kong, già gravemente colpita dalle proteste antigovernative e dalla persistente pandemia di coronavirus, subirà l’ennesimo colpo. Non solo scoppieranno nuove proteste, ma è anche probabile che i capitali stranieri inizieranno a spostarsi da Hong Kong verso altre giurisdizioni nella regione, prime tra tutte Singapore e il Giappone. In un contesto di questo tipo, le società cinesi troveranno Hong Kong assai meno attraente di prima. Se Hong Kong dovesse perdere il suo status di principale centro finanziario della regione Asia-Pacifico, quotarsi nei suoi mercati non sarebbe più vantaggioso. Singapore rimarrebbe dunque l’opzione “migliore” sul tavolo.

Anche Singapore, però, ha i suoi lati negativi. Per prima cosa, la borsa non è matura come quella di Hong Kong e la città-stato è nota per essere un centro di scambio merci più che un centro finanziario. Naturalmente, Singapore combatte da anni Hong Kong per conquistare le offerte pubbliche iniziali nella regione e, con la potenziale scelta dei capitali stranieri di abbandonare l’hub cinese, Singapore avrebbe molto da guadagnare. Le variabili in gioco sono certamente molteplici. n primis, le autorità cinesi cercheranno in tutti i modi di spingere le compagnie nazionali a quotarsi nei mercati di Shanghai e Shenzhen. Tuttavia, fino a quando il PCC non troverà una soluzione per permettere alle società quotate sul mercato interno di raccogliere fondi denominati in USD in modo regolare, i mercati nazionali avranno difficoltà ad attrarre società cinesi, dato che proprio una delle ragioni principali per cui queste ultime sono quotate all’estero è la prospettiva di raccolta di capitali in valuta statunitense.

Gli eventi che si sono succeduti nel corso degli ultimi mesi hanno creato una situazione in cui il coltello dalla parte del manico sembra essere nelle mani degli Stati Uniti. La Cina, da un certo punto di vista, ha le spalle al muro. Il PCC dovrà ripensare in toto la sua strategia, sia per affrontare i problemi interni sia, in generale, per contenere le accuse ricevute dalla comunità internazionale, al fine di evitare ulteriori dannose crisi.

Di Cercius Group*

*Cercius Group è una società di intelligence geopolitica e di consulenza strategica. Con sede a Montreal ed uffici ad Hong Kong e Firenze, Cercius Group si specializza in analisi e previsioni dei principali trend politici ed economici della Repubblica Popolare Cinese. Per maggiori informazioni info@cerciusgroup.com