Ottenere cento vittorie in cento battaglie non è dimostrazione di grande abilità. Soggiogare il nemico senza combattere rappresenta la vera vetta dell’arte militare.
(SUN ZI, generale e filosofo)
Xing Xing, Tuan Tuan, Yuan Yuan, Meng Meng e Jiao Qing. Questi nomi forse non vi diranno molto, eppure appartengono tutti a celebri ambasciatori cinesi al centro di controversie diplomatiche, che ci consentiranno di affrontare alcuni temi caldi nelle relazioni del Celeste Impero con il resto del mondo, e di fare il punto sull’idea che questo grande paese ha di se stesso. Cosa leghi, a parte il ruolo, gli ambasciatori sopra citati è presto detto: l’essere degli esemplari di Ailuropoda melanoleuca, comunemente conosciuti come panda giganti o panda maggiori. Per noi, il più raro tra gli orsi è soprattutto l’emblema della fauna da proteggere da quando, nel 1961, è diventato il simbolo del wwf, ma in Cina questo animale è considerato «tesoro nazionale»: incarna la natura benevola, l’unicità e l’antica cultura del paese ed è ritenuto uno strumento imprescindibile del soft power, fondamentale per esportare un’immagine affabile del Dragone.
Non esiste una data precisa che segni la nascita della cosiddetta «diplomazia del panda», ma sembra che il suo primo manifestarsi risalga al 685, quando l’imperatrice Wu Zetian, della dinastia Tang, regalò una coppia di orsi bianchi
e neri al vicino Giappone. In tempi più recenti, è interessante ricordare l’invio di panda agli alleati Urss e Corea del Nord da parte di Mao
Zedong, in seguito alla nascita della Repubblica popolare cinese. Ancora, il famoso viaggio del presidente americano Richard Nixon in Cina del 1972, di cui si è parlato nel capitolo V, fu accompagnato dal dono di due orsi destinati al National Zoo di Washington dc. Tali gesti hanno contribuito a diffondere a livello planetario l’immagine del simpatico animale, generando una sorta di innamoramento collettivo nei suoi confronti che ha incentivato la spedizione di altri esemplari in molti paesi occidentali nella decade successiva: Germania, Regno Unito, Spagna, Francia.
Nel 1996 lo zoo di San Diego ha affittato una coppia di panda per dodici anni, al costo di un milione di dollari
all’anno, inaugurando di fatto la pratica più recente della panda diplomacy «temporanea». I panda, infatti, non si regalano più: si prestano. Dal canto suo la Cina, destinataria degli introiti dei leasing, promette di investire i denari raccolti in tutti i continenti per potenziare ulteriormente la salvaguardia del suo animale simbolo, nonostante qualche osservatore abbia lamentato la scarsa trasparenza nella gestione di tali risorse. Negli ultimi anni il valore politico del panda ha finito per oscurarne l’aspetto di «animale in
via di estinzione»: mentre la sopravvivenza della specie è sempre meno a rischio (specie che nelle classificazioni degli
esperti alla fine del secolo scorso era considerata «rarissima», e che ora è definita «vulnerabile»), tra il 2015 e il 2017 il numero di panda negli zoo del mondo è quasi raddoppiato, raggiungendo la cifra di settanta esemplari in venti paesi, contro i quarantadue sparsi in dodici paesi del 2015.
Questo incremento è dovuto soprattutto al grande accento che Xi Jinping pone sul soft power mentre candida la Cina a nuova guida dell’ordine mondiale. Pare infatti che sia il presidente in persona a firmare gli accordi che inviano i panda in giro per il mondo, e soprattutto sembra che la richiesta debba essere espressa direttamente dal capo di Stato interessato a ospitarli, un retaggio di antiche usanze per cui l’imperatore cinese accoglieva le richieste dei vicini. Non è un caso che molti recenti leasing di panda abbiano coinciso con la firma di importanti accordi commerciali, e che varie restituzioni siano avvenute in caso di comportamenti poco condivisi dal Dragone. La riconsegna del panda Tai Shan alla Cina da parte del National Zoo di Washington nel 2010, per esempio, è stata interpretata da molti osservatori come una risposta alla decisione dell’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama di incontrare il
Dalai Lama. La struttura della capitale statunitense si era detta disponibile a un rinnovo del prestito, ma i cinesi sono
stati inflessibili. La condizione inderogabile, propedeutica allo scambio, è infatti molto precisa: il paese che riceve un panda non deve
mettere in discussione la legittimità del Partito comunista cinese e i principi dell’«unica Cina» e di «un paese, due sistemi», che presuppongono rispettivamente l’appartenenza del Tibet e di Taiwan alla Repubblica popolare cinese e la subordinazione di Hong Kong alla sovranità di Pechino, nonostante il differente ordinamento istituzionale e lo speciale sistema economico.
Meng Meng e Jiao Qing: Hong Kong
Per l’occasione, Angela Merkel ha scelto una giacca squadrata azzurra. Attende concentrata con la sua caratteristica espressione seriosa, simile a un’attrice che sta ripassando la parte. Arriva il corteo di Mercedes da cui scendono Xi Jinping e la first lady Peng Liyuan. L’occasione è solenne: siamo nel luglio 2017. Sta per aprirsi ad Amburgo il G20, il primo ospitato dalla Germania e il terzo organizzato da un paese dell’Unione Europea. L’anno precedente la Cina è diventata il primo partner commerciale dei tedeschi. Lanter ne cinesi pendono dagli alberi del Panda Garden dello zoo di Berlino, la cravatta di Xi Jinping ha lo stesso colore della giacca della cancelliera. I due si avvicinano a una grande teca, le tende rosse si spalancano e svelano Meng Meng (Piccolo Sogno) e Jiao Qing (Piccolo Tesoro), una coppia di panda giganti.
Dalla morte, nel 2012, di Bao Bao, regalo del governo di Pechino al cancelliere tedesco Helmut Schmidt all’inizio degli anni Ottanta, lo zoo della capitale non ospita più questo animale. Meng Meng e Jiao Qing, che divorano avidamente bambù al cospetto di Angela Merkel e Xi
Jinping, sono il simbolo della salute di cui godono le relazioni tra i due paesi in vista del summit. Eppure, non passa molto tempo ed ecco che i due speciali ambasciatori diventano causa di tensione diplomatica. Nell’agosto 2019 Meng Meng dà alla luce due cuccioli.
Un evento raro, visto che, come è noto, gli esemplari maschi e femmine di questa specie hanno una libido bassissima e si accoppiano solo per due o tre giorni all’anno. I piccoli orsi fanno subito il loro ingresso nel dibattito politico perché alcuni tabloid tedeschi invitano a scegliere per loro i nomi «Hong» e «Kong», una sorta di riconoscimento alle proteste in corso da mesi nelle strade dell’ex colonia britannica, regione amministrativa cinese che gode di un regime di semiautonomia. A noi potrà sembrare soltanto una provocazione, ma per la Repubblica popolare si tratta di un vero e proprio affronto da parte del paese che è sì un solido partner economico, ma che nel contempo rappresenta anche un rifugio per numerosi dissidenti cinesi (tra gli
ultimi esuli ricordiamo Liu Xia, la moglie del premio Nobel Liu Xiaobo).
A partire dal giugno 2019, infatti, il Porto Profumato (Hong Kong in mandarino) è scosso da un’ondata di proteste, innescate da un emendamento alla legge sull’estradizione discusso nel parlamento cittadino. Qualora fosse stato approvato, il provvedimento avrebbe consentito il trasferimento degli imputati per gravi reati come lo stupro e l’omicidio nella Cina continentale. Le dimostrazioni si sono
presto allargate, indirizzandosi contro il governo di Hong Kong e contro la Cina.
Non è la prima volta che le piazze di Hong Kong reagiscono di fronte ai tentativi di intrusione da parte di Pechino:
nel settembre 2014 la cosiddetta «rivoluzione degli ombrelli», con le sue occupazioni a Central, il distretto finanziario della città, aveva attirato gli sguardi di tutto il mondo. Migliaia di manifestanti avevano riempito le strade utilizzando come scudo contro i lacrimogeni della polizia dei comuni ombrelli gialli, diventati poi il simbolo della protesta. Allora, a scatenare l’indignazione popolare era stato l’annuncio di una riforma elettorale, sempre decisa da Pechino, per le successive elezioni locali. Erano scesi in piazza gli studenti del gruppo Scholarism, l’organizzazione capeggiata dal diciassettenne Joshua Wong, l’attivista spesso presente sui giornali occidentali al quale, a fine novembre 2019, è stata negata l’autorizzazione a viaggiare in Europa a causa del pericolo di fuga – sarebbe dovuto venire anche in Italia – e i movimenti spontanei come Occupy Central, già da tempo impegnato nella richiesta di libere elezioni nell’ex colonia.
Hong Kong regge il suo delicato equilibrio con la Repubblica popolare sulla politica «un paese, due sistemi», il principio stabilito da Deng Xiaoping che da un lato riafferma l’unità nazionale del Celeste Impero e dall’altro riconosce alla città una condizione speciale, caratterizzata da un proprio ordinamento giuridico, politico e legislativo, un proprio sistema economico e un alto grado di autonomia in tutti i campi, a eccezione di affari esteri e difesa.
Non è stato sempre così. Dalla metà dell’Ottocento, il Regno Unito ha esercitato il suo potere sulla città. Risale invece a cent’anni più tardi la Dichiarazione congiunta sino-britannica, firmata a Pechino dall’allora premier Margaret Thatcher e da Deng Xiaoping, nella quale si stabiliva il ritorno a far parte della Cina di tutti i territori di Hong Kong (l’ex colonia si compone dell’isola di Hong Kong, della penisola di Kowloon e dei Nuovi Territori) a partire dall’estate del 1997, con l’impegno solenne della Cina a mantenere intatto il sistema economico e politico della città fino al 2047. Nei primi anni dopo la riunificazione, il Porto Profumato ha rappresentato il volto dinamico e all’avanguardia della Cina. Le megalopoli del continente hanno guardato all’ex colonia di Sua Maestà la Regina come a un modello da imitare.
Ora, però, le differenze sembrano essersi attenuate. Anche gli uomini d’affari di Shanghai e Chongqing parlano ormai un fluente inglese nei salotti dell’economia mondiale e la soggezione verso la prospera cugina affacciata sul Mar Cinese Meridionale è venuta meno. Non è un caso che uno degli strumenti che Pechino intende usare per neutralizzare le spinte centrifughe provenienti dall’ex colonia britannica sia quello di inglobare la città portuale nella cosiddetta «area della grande baia Guangdong – Hong Kong – Macao», una gigantesca conurbazione di quasi settanta milioni di abitanti collegata da infrastrutture all’avanguardia, un tessuto economico integrato a guida rigorosamente cinese. Un progetto che fa paura a molti, sotto lo skyline mozzafiato di Hong Kong. Nell’ex colonia vige la cosiddetta basic law, fondata sulla common law britannica e attenta a tutelare diritti diversi rispetto al corpus legislativo dei cinesi continentali, e si tengono elezioni a cui è solito presentarsi un ampio ventaglio di formazioni politiche. Il capo dell’esecutivo, tuttavia, è indicato da un ristretto comitato elettorale, individuato attraverso complessi meccanismi gestiti nella sostanza dal governo cinese. Non potendo esercitare pienamente la facoltà di voto, i cittadini di Hong Kong compensano questa privazione appellandosi al diritto di manifestare, portando in piazza le loro istanze. Temono che il Dragone stringa le redini attorno allo statuto speciale della città e sono risoluti, specie i più giovani, a difendere le libertà previste dalla Dichiarazione congiunta sino-britannica.
In una fase storica caratterizzata da disuguaglianze sociali e sperequazioni, la classe politica e quella degli imprenditori hanno visto progressivamente offuscarsi la loro immagine e sono percepite come distanti, ripiegate sui propri interessi e sempre più proiettate verso il governo di Pechino. Dal canto suo, la Repubblica popolare non può allentare la presa perché Hong Kong è un attore imprescindibile nel suo sistema finanziario, un vero ponte tra la Cina e il resto del mondo, e, soprattutto, perché cedere potrebbe creare un effetto domino e mettere in crisi gli equilibri politici anche in altre aree del paese.
A distanza di mesi dallo scoppio della protesta contro la riforma della legge sull’estradizione, la situazione nell’ex colonia britannica ha subito così una drammatica escalation: è lievitato il numero dei feriti e ci sono state le prime vittime. Gli scontri di piazza si sono trasformati in una vera e propria guerriglia urbana. L’uso della violenza da parte sia delle forze dell’ordine sia dei manifestanti è diventato quasi una prassi. I fotoreporter e i media di tutto il mondo hanno immortalato l’utilizzo di laser, gas lacrimogeni, pistole e bombe incendiarie, l’erezione di barricate, l’accensione di fuochi, la costruzione di rudimentali trincee di mattoni, l’utilizzo di frecce. Per alcuni giorni il politecnico della città è diventato il simbolo della resistenza degli studenti, che si sono difesi contro l’assedio della polizia finché non sono stati sgomberati.
A ottobre è stato raggiunto il traguardo del ritiro del provvedimento sull’estradizione, ma le proteste non si sono attenuate. Il governo di Pechino non ha fornito risposte alle altre quattro richieste dei manifestanti (la derubricazione delle manifestazioni classificate come «rivolte», un’inchiesta sui comportamenti brutali della polizia durante gli scontri, il rilascio degli arrestati e maggiori libertà democratiche). Anzi, ha più volte rimarcato l’intenzione di ripristinare l’ordine il prima possibile e di non tollerare ingerenze straniere che mettano in discussione la dottrina «un paese, due sistemi». Il presidente Xi Jinping si è espresso per la prima volta su Hong Kong, in un contesto internazionale, dopo sei mesi dallo scoppio della protesta, mentre si trovava a Brasilia per un summit dei paesi brics, e le sue parole sono state tutt’altro che concilianti: «Continueremo a sostenere fermamente il capo dell’esecutivo alla guida del governo della Regione amministrativa speciale, in modo che possa governare in conformità con la legge, seguiteremo a supportare la polizia di Hong Kong nell’applicazione rigorosa della legge e a sostenere gli organi giudiziari regionali nel punire severamente i violenti criminali in conformità con la legge».
Mesi di contrasti politici e manifestazioni di piazza hanno lasciato il segno sia dal punto di vista sociale, con una tensione che sembra non allentarsi anche alla luce dei risultati delle elezioni locali di novembre (le uniche a suffragio universale), che hanno visto la netta vittoria dei candidati pro-democrazia, sia dal punto di vista economico. Nell’ex colonia tra luglio e settembre 2019 la crescita economica si è ridotta del 3,2 per cento. I numeri parlano chiaro: Hong Kong è tecnicamente in recessione. I settori più colpiti sono quelli del turismo (-40 per cento i visitatori ad agosto) e delle vendite al dettaglio, che sono calate di quasi un quarto. La prima reazione dell’opinione pubblica del Celeste Impero ai disordini di Hong Kong ha visto emergere un sentimento di solidarietà verso i giovani scesi in piazza. Per
questa ragione Pechino ha inizialmente applicato una censura integrale sulle notizie provenienti dalla città portuale, sia sulla rete sia nei media.
Col passare del tempo, però, la percezione delle proteste è cambiata radicalmente, in particolar modo perché gli scontri si sono protratti anche dopo il ritiro della proposta di legge sull’estradizione. I cinesi della terraferma hanno presto preso le distanze dalle frange più agguerrite dei manifestanti, stringendosi attorno alla madrepatria sotto attacco. Nella Cina continentale serpeggia ormai la convinzione
che le proteste non abbiano più nulla a che fare con quella complessa questione legale, ma siano il frutto di un’operazione di destabilizzazione anglo-americana, finalizzata a separare la regione di Hong Kong dal corpo imponente del Celeste Impero. La firma del presidente americano Donald Trump, nel novembre 2019, in calce all’Hong Kong Human Rights and Democracy Act – un disegno di legge che vincola il trattamento riservato dagli Usa a Hong Kong a revisioni periodiche sulla situazione dei diritti umani e civili,
attraverso controlli annuali sullo status «autonomo» dell’ex colonia e la possibilità di sanzionare funzionari che operino contro questo status – rischia di rafforzare tale visione.
Per i cinesi esiste un confine invalicabile che circonda l’integrità fisica della nazione. La solidarietà verso i ribelli di Hong Kong è quindi sopravvissuta fino a quando questi ultimi non hanno oltrepassato quel limite. Il governo di Pechino si è affrettato a cavalcare tale repulsione verso i toni indipendentisti, demonizzando con sempre maggior forza i manifestanti, e non ha esitato ad alzare la voce contro
«le ingerenze negli affari interni della Cina» da parte di altri paesi. La provocazione di chiamare Hong e Kong i baby panda dello zoo di Berlino in solidarietà ai manifestanti è, per Pechino, un esempio di questo atteggiamento.
Il nazionalismo sostenitore della stabilità e dell’unità inviolabile è oggi la vera grande ideologia dei cinesi, il vero collante tra il popolo e il partito unico che si propone di dar voce alle sue istanze. Il pcc si autorappresenta come la forza che ha saputo storicamente respingere le pressioni estere sui confini e che ha scritto la parola fine al «secolo delle umiliazioni» perpetrate dagli stranieri. Il culto della nazione è ormai un ingrediente irrinunciabile nei progetti egemonici del governo del Dragone, un elemento che, una volta instillato nelle masse, può diventare un antidoto efficace contro le residue velleità indipendentiste di realtà come quella di Hong Kong. Infatti, la città rappresenta un banco di prova per il futuro di Taiwan e di altre regioni calde dello scacchiere cinese, come lo Xinjiang
e il Tibet, interessate entrambe da movimenti separatisti.
Oggi ancora più di ieri, forse, perché la Cina di Xi Jinping, come abbiamo visto, è proiettata verso l’esterno alla ricerca di una dimensione globale, che sarebbe impossibile in un quadro di disordine interno. Da decenni, l’incubo dei collassi sovietico e iugoslavo toglie il sonno ai governanti cinesi: ogni spinta centrifuga rappresenta una crepa che può ingrandirsi e mettere in crisi l’unità e la stabilità della nazione, sostituendo la «società armoniosa» con la «società del caos». Per questo Pechino, nelle regioni a rischio, non transige e non scende a compromessi.
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