Ultimamente il Myanmar è tornato alla ribalta della cronaca grazie all’opposizione di enti e leader mondiali al genocidio Rohingya. Tuttavia, i Rohingya sono solo una delle numerose tragedie da cui è afflitto quotidianamente il paese. La parola al Gen. Gun Wen, seconda carica dei Kachin.
A 70 anni dall’indipendenza, 30 anni dalle rivolte e 10 anni dalla “costituzione democratica”, il Myanmar vanta tutt’ora una tra le peggiori crisi umanitarie al mondo. Guerra civile, pulizia etnica, traffici di esseri umani, influenze geopolitiche, doppi giochi stranieri, oltre un milione di sfollati e un premio Nobel per la pace vittorioso alle elezioni dopo vent’anni di prigionia, ma ancora tenuto in scacco dalla giunta militare. Una velo di democrazia per eludere crimini e sanzioni internazionali. Ce ne parla la seconda carica dello stato Kachin, più grande gruppo armato che si oppone al governo.
Il 1 gennaio 48 nasceva la Repubblica italiana mentre tre giorni dopo la Birmania otteneva l’indipendenza dai britannici. Entrambi i paesi negli anni hanno fronteggiato una varietà etnolinguistica interna notevole. Tuttavia, in Myanmar, già nel 1962, la questione delle 135 minoranze facilitava il Generale Ne Win nel sovvertire lo Stato, forzando la burmizzazione e violando l’autonomia etnica concessa dal Generale Aung San, guida del paese fino al 47, anno del suo omicidio. Da allora, il Tatmadaw, l’esercito nazionale, ha esasperato quella che oggi è una tra le guerre più lunghe al mondo contro le minoranze: assassinando leader, distruggendo città, occupando terre e sfruttando risorse umane e naturali. Tra i principali 8 gruppi etnici troviamo i Kachin e gli Shan, ma ci sono anche altri gruppi non riconosciuti come i Rohingya, vittime della pulizia etnica e di un esodo di quasi un milione di profughi.
Il primo grande eco di rivalsa anti-regime avvenne con le sanguinose rivolte studentesche del 8888 (8 agosto 88), le quali condussero alle prime elezioni libere dopo 30 anni. Elezioni vinte dalla Lega per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, figlia del Gen. Aung San, arrestata poco dopo dal regime. Nonostante Suu Kyi vinse il Nobel per la Pace nel ’91 e investì quel denaro nel sistema sanitario e scolastico birmano, subì gli arresti domiciliari per circa 20 anni.
Fu solo grazie alle pressioni internazionali che, nel 2008, la giunta militare modificò la costituzione e indisse nuove elezioni, aprendo a riforme democratiche in anni in cui il Myanmar era descritto dalle Ong umanitarie come il “peggio del peggio”. Oggi Aung San è libera e il suo partito ha vinto le ultime elezioni, seppur le fu impedito di concorrere a Presidente dalla nuova costituzione, perché sposata con uno straniero.
Tali sviluppi hanno enfatizzato la questione etnica e i processi di pace, abolendo sanzioni internazionali e facendo crescere il Myanmar negli indici di sviluppo umano, come all’interno di Freedom House, dove oggi viene definito un paese “parzialmente libero”, con la stessa imparagonabile etichetta che fu posta all’Italia di Berlusconi. Tuttavia, basta guardarsi un po’ intorno per realizzare come in realtà i conflitti si stiano esacerbando e le condizioni umanitarie risultino ancora tra le peggiori al mondo.
Conobbi Naw Tawng a Pechino, e lavorai con lui per due anni. Dopo qualche mese mi rivelò la sua identità, ma mai il suo vero nome. Mi disse che se l’avessero trovato nell’ex capitale burmese, a Yangon, riconoscendolo come un Kachin, l’avrebbero arrestato, torturato e probabilmente ucciso. Mi parlò di sua moglie e sua figlia piccola a migliaia di chilometri da lui. Aveva gli occhi stanchi, ma sorridenti. Voleva che il mondo conoscesse la loro tragedia e mi invitò a testimoniarla con i miei occhi. Sarei entrato sotto copertura come docente di inglese per bambini, e illegalmente, tramite un corridoio nel sudest dello Yunnan cinese. Laisa, la capitale Kachin sta proprio li, sul confine, cosa che in un clima di cessate il fuoco avrebbe dovuto scoraggiare ogni tipo di azione militare nell’area. Purtroppo però, pochi giorni prima della partenza, l’esercito birmano bombardò Laisa, trucidando 23 suoi colleghi e stuprando e uccidendo delle insegnanti ancora adolescenti. Mi impedì di partire con lui. Era il 2014, e da allora la situazione non ha fatto altro che peggiorare.
Oggi i villaggi Kachin vengono rasi al suolo, usando come scudi umani migliaia di civili.
L’Onu stima che i rifugiati siano oltre 100mila e Naw racconta siano facile preda di trafficanti di esseri umani, droga e pietre preziose. Lo intervistai allora e lo rifeci qualche giorno fa, quando mi mise in contatto con il suo capo, il Gen. Gun Maw, seconda carica dello Stato e Vice della Kachin Independence Organization (Kio).
Dal “peggio del peggio” alla “democrazia”
Nonostante la nuova costituzione, il Myanmar è ancora lontano dal definirsi democratico. La Carta rivendica la libera espressione, ma utilizza un “linguaggio restrittivo che contravviene gli standard internazionali”. I giornalisti subiscono ancora incidenti mortali, ogni protesta è repressa e la censura domina la propaganda.
“La stampa nazionale ci ritrae spesso come terroristi” racconta Naw, riflettendo su come l’esercito nazionale sfrutti tortura e stupro come armi demoralizzatrici. “Ufficialmente cerchiamo di negoziare con il governo per la convivenza, ma il 99% di noi vuole l’indipendenza. Non ci sentiamo al sicuro, soprattutto oltre i nostri confini.” Tuttavia, non tutti gli attacchi alle minoranze giungono dal governo. Anche Amnesty e l’Onu hanno documentato violazioni da parte loro, come l’addestramento “per lo più volontario” di bambini soldato, seppur non coinvolti al fronte. Un processo avviato negli anni ’60 con la quota “uno per famiglia”, di cui la gran parte tra i 15 e i 17anni. Accuse negate dal Kio, per il quale “è vietato arruolare minori”.
“Non siamo in grado di frenare tutti gli abusi” spiega il Gen. Gun “le violenze sono documentate e cooperiamo con molte organizzazioni”. Uno dei più grandi ostacoli governativi alle Ong è pero legato all’accesso e trasporto di aiuti umanitari. “E’ difficile stare negli standard internazionali in tali condizioni, facciamo del nostro meglio, ma necessitiamo di più supporto”.
L’impervia rotta verso la pace
Nonostante l’Onu abbia sollecitato un processo di pace, gli scontri si intensificano. Per il Generale questo accade “perché invece di rinegoziare si fa pressione sulle minoranze perché accettino accordi prestabiliti. L’esercito darebbe la vita per la Costituzione del 2008”, mentre per i Kachin l’impossibilità di accettarla è il motivo per cui i gruppi etnici non son rappresentati in Parlamento, nonostante le minoranze collaborino su più fronti, controllino metà del territorio birmano e costituiscano un terzo della popolazione. Un dato in rapido calo a causa degli scontri e della progressiva “burmizzazione”.
“Per la costituzione il 25% dei seggi è sempre destinato ai militari e la sua modifica richiede più del 75% del parlamento.” In altre parole spiega Naw “è quasi impossibile modificarla senza i voti dell’esercito”. “L’unico modo per noi di firmare un accordo governativo” aggiunge il Gen. Gun “consiste nel coinvolgere tutti le minoranze armate nel processo di pace, e avviare la negoziazione solo dopo il cessate il fuoco. Un processo dove nostri delegati genuini (e non burattini del governo) possano prendere parte”.
Un velo democratico per eludere sanzioni internazionali
Non solo per i Kachin, anche per molti osservatori sembra che la riforma democratica sia stata fatta ad arte per convincere l’occidente a ritrarre le sanzioni e investire in un paese in bancarotta, avulso da decenni di regime militare, economia pianificata, isolamento e disastri naturali.
“L’unica cosa che preme alla giunta militare è mostrare al mondo che un processo democratico esiste” afferma il Generale. “Abbiamo firmato molti accordi, ma non vengono rispettati. Nel 2014, a Yangon ne firmammo uno che prevedeva, oltre al cessate il fuoco, un impegno governativo al riconoscimento della nostra autonomia” aggiunge Naw, rivelando come nei giorni seguenti il governo abbia ritrattato in privato la propria volontà di rispettare i patti: “lo fecero solo per impressionare la comuncomunità internazionale, evitare sanzioni e incentivare investimenti stranieri, per poi incolpare le minoranze del fallimento delle trattative e perpetrare la pulizia etnica.”
Aung San: Burattino nelle mani del governo?
Nonostante la Lega sia oggi l’unica alternativa democratica, la loro leader ha subito diverse critiche da Ong e dalla stessa Malala Yousafzai, anch’essa Nobel per la Pace. Questo perché “Aung San si focalizza sulla democrazia” spiega il Generale “preoccupandosi più della firma di un accordo di pace che della reale risoluzione della questione etnica a livello costituzionale.” Anche le parole di Naw nei confronti del Premio Nobel sono molto dure: “Quello che il mondo vede come simbolo di speranza per la Birmania, Aung San Suu Kyi, non lo è più per noi. Lei non fa parte delle minoranze, ne sembra avere reali progetti per i gruppi etnici. Purtroppo, è un burattino nelle mani del governo, strumentalizzata come simbolo di un illusorio progresso democratico.”
Attori internazionali e doppio gioco cinese
Nel mentre i governi stranieri giocano il ruolo di mediatori, ma per Naw “è difficile dire se stiano aiutando noi o preservando i propri interessi. Le Ong e gli enti Onu sono gli unici a supportarci senza doppi fini”. La Cina confina con i Kachin e vanta interessi geopolitici ed economici nell’area. Le risorse naturali, la diga Myitstone e la posizione strategica al confine la rendono appetibile per Pechino, a tal punto da infrangere il suo mantra della non-interferenza. La Cina è stata il primo mediatore tra minoranza e governo, con un doppio gioco che ha spesso esacerbato il conflitto, supportando sia l’esercito nazionale e sia i ribelli. Una questione delicata per cui lo stesso Generale ha evitato di fornirci dettagli.
Il suo messaggio al mondo è un invito al sostegno delle minoranze e della negoziazione democratica “in nome della verità”. Quello di Naw è invece un appello senza mezza termini: “Il governo birmano manipola la comunità internazionale perché non subisce più le stesse sanzioni per gli abusi umanitari, ma continua a perpetrarli, biasimandoci di fronte alle istituzioni. Non potrà mai esserci pace senza garanzie. Per noi l’unico modo è il dialogo politico, per loro è il tentativo di sterminarci. Chi pensate siano i veri terroristi?”
di Gianluca Atzori
[Pubblicato su il manifesto]