Rispolverando una legge del 1994, il governo del Myanmar intende limitare l’espansione delle famiglie rohingya, minoranza etnica musulmana vittima delle violenze buddhiste nel Paese. La comunità internazionale esprime preoccupazione, mentre i buddhisti festeggiano.
Ci sono notizie che arrivano e rivelano il senso di fragilità dei diritti umani e il loro carattere negoziato, ben poco naturale. Da alcune settimane, le famiglie rohingya che vivono in Myanmar non possono avere più di due figli.
Un regolamento del governo dello stato di Rakhine ha imposto alla popolazione musulmana del distretto di Maungdaw, al confine con il Bangladesh, di limitare l’espansione delle proprie famiglie, negando il riconoscimento della poligamia e obbligandole ad avere due figli al massimo.
Win Myaing, portavoce del governo di Rakhine, ha dichiarato che la misura è stata adottata “per controllare la crescita della popolazione”, poiché i musulmani stanno aumentando in misura intollerabile per le autorità locali e nazionali. Sempre secondo Win Myaing, l’ordine è infatti arrivato direttamente da Naypyidaw.
In questa regione del Myanmar occidentale, le tensioni tra la minoranza buddhista rakhine, supportata dalle forze dell’ordine governative, e il popolo rohingya, apolide, si sono scatenate nel giugno 2012. Le terribili violenze di questi mesi hanno lasciato centinaia di morti e centinaia di migliaia di sfollati.
Il governo sta rifiutando di affrontare il conflitto in modo da risolvere la condizione dei rohingya e la situazione, contro ogni speranza, sembra adesso peggiorare ulteriormente.
In realtà il limite dei due figli esiste dal 1994, anno in cui si stabilì che i rohingya dovessero chiedere un’autorizzazione per sposarsi e registrare ogni bambino nato. Le autorizzazioni vengono tuttora date con difficoltà, spesso dopo anni, e solo grazie al pagamento di ingenti somme di denaro (si parla di cifre variabili, tra i 50 e i 300 euro).
Riguardo il controllo delle nascite, le autorità locali decisero allora di essere più morbide e non impedirono ai bambini di nascere, ma alzarono le tariffe di registrazione dei figli successivi al secondo. Registrazioni, tutte queste, che non implicavano comunque in nessun modo il riconoscimento della cittadinanza birmana.
In un report del 2012 dedicato alla situazione dei bambini rohingya in Myanmar, l’Arakan Project ha raccolto alcune testimonianze direttamente dai bambini.
Anwar, di 9 anni, racconta che “se i bambini non sono sulla lista dei componenti la famiglia, non possono rimanere nel villaggio. Come mio fratello ad esempio. I miei genitori non hanno potuto aggiungere il nome di mio fratello alla loro lista familiare. Per questo hanno dovuto lasciare il villaggio. Alcuni genitori vivono ancora nel villaggio senza registrare i propri bambini, ma li devono nascondere. Oppure li devono registrare a nome di altri genitori. Come me. Io sono registrato come il figlio di mia nonna”.
Le famiglie rohingya devono pagare le forze di sicurezza, in forma di mazzetta, ogni volta che un bambino nasce o che qualcuno muore. Dal 2002, le donne rohingya che aspettano figli devono andare di persona a registrarsi presso il campo Na Sa Ka (forze di sicurezza di frontiera) più vicino, che talvolta si trova a ore di distanza dal loro villaggio.
La decisione di attuare una restrizione del genere nei confronti di una minoranza religiosa pone le autorità del Myanmar in una posizione fortemente condannata a livello internazionale. Tanto che questa volta anche Aung San Suu Kyi ha fatto sentire la sua disapprovazione, “questo è contro il rispetto dei diritti umani”.
Nonostante il governo del Myanmar non abbia ancora assunto una posizione chiara e dichiarata, lo scorso venerdì, Ye Htut – portavoce del Presidente U Thein Sein – ha riferito a Radio Free Asia che l’iniziativa di attuare il limite dei due figli è di natura regionale e che il governo nazionale "riesaminerà" la questione.
Le pressioni internazionali hanno insomma provocato una reazione. Oltre alla Lady, già Barack Obama era intervenuto esplicitamente sulla questione rohingya in occasione della visita di U Thein Sein alla Casa Bianca il 20 maggio scorso, esprimendo preoccupazione e chiedendo di risolvere la crisi.
L’etnia rakhine, a maggioranza buddhista, festeggia invece la manovra lanciata per ridurre quello che viene percepito come un "pericolo islamico" e ieri, martedì 4 giugno, è scesa per le strade a manifestare in appoggio a questa strategia, chiedendo che venisse estesa anche agli altri distretti abitati da rohingya.
Di segno opposto è il gesto altamente significativo di quarantotto organizzazioni del Myanmar, di matrice sia buddhista che musulmana, che hanno lanciato e sottoscritto un appello chiedendo di fermare ogni tipo di violenza.
In Myanmar, secondo l’UNICEF, il 64,9 per cento dei bambini non è registrato: questo comporta una condizione di massima fragilità e potenziale mancato riconoscimento della cittadinanza per tantissimi individui.
La vera urgenza che il governo oggi dovrebbe affrontare è la regolarizzazione e la concessione della cittadinanza a quella popolazione chiamata rohingya, che si cerca disperatamente di eliminare, ricorrendo a scelte estreme, inumane e inaccettabili.
*Ilaria Benini lavora come ricercatrice indipendente a Yangon, Myanmar. Laureata in Sociologia della Comunicazione, sta svolgendo la fase di ricerca sul campo del progetto "Myanmar and Media. An Ethnographic and Visual Research about old media, new media and perception of change". Ha viaggiato in Myanmar, Indonesia, Timor Leste, Cambogia, Laos, Malaysia, Thailandia
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