Il 2 marzo di quest’anno cade il sessantesimo anniversario dall’inizio (ufficiale) della dittatura militare. Ma qual è il volto del paese un anno dopo che il golpe ha riportato il Tatmadaw al potere? La risposta degli esperti in un lungo approfondimento dedicato alla governance passata e futura di Naypyndaw
Un anno fa, il 1° febbraio 2021, il Myanmar è precipitato nel caos: un colpo di stato guidato dall’esercito, il Tatmadaw, annulla i risultati delle elezioni dell’autunno precedente e dichiara ristabilito il governo militare. Nel 1962, il 2 marzo, un altro colpo di stato avrebbe segnato per sempre la storia di questo paese. Anche in questo caso le forze armate arrivarono al potere dopo due anni di governo civile, legittimandosi davanti alle accuse di corruzione del primo ministro U Nu. Da allora, la Birmania ha vissuto sei decenni di governo militare e autocratico. Al confronto, la riforma democratica guidata da Aung San Suu Kyi appare più come una fase, un’incidente, anziché una svolta storica.
Sessant’anni. Un ciclo che in Asia ha connotazioni positive (la chiusura di cinque cicli dei 12 animali del calendario lunare), come ricorda il professore della Georgetown University David Steinberg in un articolo pubblicato sull’Irrawaddy. In Myanmar, invece, la storia si è riavvolta su sé stessa. Ma non è del tutto esatto ridurre la crisi post-golpe a una ripetizione delle dinamiche di potere del passato. Ne abbiamo parlato con i professori Giuseppe Gabusi e Stefano Ruzza dell’Università di Torino e analisti T.wai, che hanno lanciato nel 2019 il progetto MyERN per la cooperazione alla ricerca tra Europa e Myanmar.
Cos’è il Myanmar, oggi?
“È uno paese molto frammentato, anche più frammentato di come è stato in passato”, inizia Ruzza. “C’è ancora un dualismo tra le strutture militari e quelle governative, che oggi sono gestite dal chi comanda nel paese – quindi il Tatmadaw. Esiste, come prima, la dimensione delle organizzazioni locali, legate alle diverse etnie. La novità è l’inserimento di un’altra serie di strutture informali nate intorno al dissenso verso il nuovo regime: soggetti che hanno smesso di lavorare per lo stato, cittadini che lavoravano nel settore privato e tutti quei manifestanti che prima hanno protestato nelle città e poi sono usciti dalla città per organizzarsi altrove”. “Oggi esiste questa terra di mezzo che in parte si interfaccia con le organizzazioni etniche, ma non sempre si rivolge al governo democratico in esilio, il National unity government (Nug). Un organismo a mio parere etereo, ma che rivendica un certo tipo di continuità con le azioni condotte da questi nuovi gruppi informali armati, che vengono spesso riuniti sotto la dicitura di “People defence forces (Pdf)”.
La confusione attuale è anche, e soprattutto, un problema che riguarda il funzionamento dei servizi pubblici. Come sottolinea il professore Gabusi, “La capacità dello Stato centrale di gestire la sanità, l’istruzione e tutta una serie di servizi essenziali era già limitata. Ma il colpo di stato ha contribuito a erodere un sistema di per sé molto macchinoso e difficile nella collaborazione con l’esterno. Parliamo di un paese con una sanità tra le peggiori del continente asiatico che, sebbene non impedisca l’ingresso alle Ong, ne ostacola parzialmente le operazioni”. “Come capita in questo tipo di contesti, poi, le riforme per l’istruzione sono state accantonate”, prosegue Ruzza, “ma da quello che emerge parlando con i colleghi birmani emerge un dettaglio interessante: le iniziative non sono state cancellate, solo congelate. Questo potrebbe significare due cose: da un lato potrebbe essere semplice distacco e ignoranza sul tema (il che lascerebbe degli spazi di manovra interessanti), dall’altro potrebbe essere un segnale di come ragiona l’esercito sul suo futuro alla guida del paese. Ci sono alcuni elementi per credere che prima o poi il Tatmadaw intenda ritornare a una sorta di presunta normalità che assomiglia al regime precedente. Non sono due motivazioni esclusive, può darsi che a un certo punto vengano indette delle elezioni non particolarmente competitive, la giunta si tolga l’uniforme e ritornino in carica dei militari in borghese”.
Quali prospettive?
Sia il Tatmadaw che il Nug – e per estensione l’ex partito di maggioranza National League for Democracy (Nld) – dovranno affrontare l’idea di rimanere senza gli attuali leader. Il generale Min Aung Hlaing ha già superato il limite per il pensionamento dei militari a luglio 2021 (65 anni), mentre Aung San Suu Kyi si trova agli arresti domiciliari e ha già 76 anni. “Oggi si ragiona sulla prospettiva di un futuro senza di loro?”, chiediamo.
“Qui si apre un vaso di Pandora. Va ricordato che Min Aung Hlaing era un ragazzo prodigio: che ha fatto una carriera fulminante ed è diventato comandante in capo quando era ancora relativamente giovane. Questo ha consentito che diventasse una figura chiave della transizione democratica del 2011, cosa presumibilmente voluta dal predecessore Than Shwe che lo vedeva come un uomo di fiducia che sarebbe rimasto in carica almeno un decennio”, spiega Ruzza. “A mio parere, non ha intenzione di togliersi completamente dai giochi. Qui il ragionamento si divide in due percorsi: il futuro di Min Aung Hlaing e quello del Tatmadaw. Ammessa l’ipotesi che possano essere indette delle elezioni, potrebbe accadere che si assuma la colpa di una serie di fatti avvenuti dopo il golpe e si ritiri in una pensione dorata. Questa sarebbe una mossa lungimirante, perché separerebbe il nuovo governo da quanto accaduto dopo il 1°febbraio 2021, legittimandolo. Ma non si può prevedere il futuro: Min Aung Hlaing era chiaramente intenzionato a riciclarsi nella politica prima del golpe. Credo però che una sua seconda vita in politica potrebbe essere dannosa per l’immagine del partito che dovrà accoglierlo tra le sue fila. E sempre al netto dei brogli che, necessariamente, ci saranno”.
E cosa capiterà alle forze armate dopo Min Aung Hlaing? “Il Tatmadaw ha saputo dimostrarsi come un organismo coeso, con poche defezioni. La percezione oggi è che in seconda fila ci siano personalità ancora più hardliner, cosa che potrebbe portare l’esercito su posizioni più rigide e rivelarsi infine autodistruttiva. Se i militari sono stati in grado di mantenere una posizione importante nel paese (a fronte di tutto quello che è cambiato nel mondo negli ultimi decenni) è anche perché hanno avuto una certa capacità di adattamento”, afferma Ruzza. “Le esperienze più recenti hanno dimostrato che la frangia più dura abbia prevalso su quella tecnocratica, e questo potrebbe aumentare all’aumento della violenza e infine al collasso del Tatmadaw.”
“Il ruolo del Tatmadaw come costruttore della nazione potrebbe andare avanti ancora per molto tempo: parlo delle pagode, dell’accettazione di una cultura che è quella dell’etnia Bamar e che ha caratterizzato in buona misura le operazioni della giunta”, continua Gabusi. “Ma dall’altro lato l’esercito dovrà riflettere sul proprio futuro, anche a fronte degli scenari internazionali a cui stiamo assistendo. Il Tatmadaw ha cercato subito di rafforzare i legami con la Russia per svincolarsi dall’abbraccio troppo stretto della Cina, ma la crisi Ucraina pone il problema di diversificare le proprie alleanze per non rimanere isolati. In questo contesto l’elemento economico non può essere ignorato, e queste difficoltà stanno già facendo arretrare i finanziamenti di quella classe dirigente – non che manchino fonti di ricchezza ai militari, ma può essere un segnale importante di come l’esercito rischi di perdere la presa anche su queste fasce della popolazione”.
E della politica oltre Aung San Suu Kyi? “Il vero problema è capire in quale modo un governo militare che apra alle elezioni possa costruire un’alternativa politica in grado di costruire un minimo di legittimità”, prosegue Gabusi. “La Nld non è meno in difficoltà davanti a questi scenari: è un partito che ruota intorno a una persona che è in carcere e che è già politicamente fuori dai giochi, non solo per una questione d’età. La Lady non ha saputo costruire una successione alla sua leadership e ai vertici rimangono suoi coetanei che, nonostante abbiano anch’essi sofferto, forse non sono più nemmeno per ben voluti o viene dato loro credito dalla nuova generazione di giovani che sta combattendo contro il regime. Non so nemmeno se la Nld abbia un futuro senza Aung San Suu Kyi, a meno che non ci sia un forte rinnovamento dall’interno. Lo stesso governo in esilio è trainato soprattutto dalla Nld, e questo rischia di ridurre le sue possibilità di sopravvivenza”. Il professore torna poi su una voce che circola tra i colleghi birmani (e non): la Cina sarebbe propensa a sostenere la Nld. “Non che sia uno scenario inaspettato”, spiega, “Pechino ha fatto più affari con il governo democratico che in tutti gli anni della dittatura militare”.
Un’autocrazia resiliente
La domanda ora è quale forma di governance potrebbe adottare il Myanmar di domani. “La situazione ucraina potrebbe aver risvegliato la necessità di diversificare le partnership internazionali e a trovare soluzioni di dialogo con la comunità internazionale”, racconta Ruzza. “L’esercito birmano osserva con attenzione ciò che accade all’estero, e ripete quelle situazioni che potrebbero rivelarsi utili ai propri interessi. Potrebbe, per esempio, instaurare un’autocrazia mascherata da istituzione democratica. Questa opzione permetterebbe al Myanmar di recuperare le relazioni economiche e diplomatiche, oltre che ad approfondirle. Nel mondo è pieno di regimi simili che si interfacciano con la comunità internazionale: meglio un’autocrazia che un esercito al governo. In questo contesto, però, anche delle elezioni “finte” servono per creare degli spazi di negoziazione tra il potere e i cittadini: il classico ‘vota me e ti ricambierò con pacchi di pasta’ “.
Chiediamo ai ricercatori se la dimensione etnica rimanga una delle prospettive più solide per una governance futura del Myanmar. “Un Nld diminuito nella sua influenza, magari con la complicità di una riforma elettorale, potrebbe contribuire a questa pluralità politica di facciata che potrebbe accontentare gli osservatori internazionali”, dice Gabusi. “E il Tatmadaw ha saputo dimostrarsi sufficientemente pragmatico da negoziare con le realtà etniche, cosa che potrebbe riaprire l’opzione del federalismo mantenendo la legittimità del governo centrale”, continua Ruzza. “Sono ancora analisi premature, ma che presentano un problema che la giunta prima o poi dovrà affrontare: quello di ridefinire gli spazi del potere e del monopolio della forza. Con le forze armate etniche certi aspetti sono già consolidati, perché si tratta di porzioni di territorio de facto mai governate direttamente da Naypidaw. Ma ora c’è un attore in più, ancora in divenire: la resistenza civile, le Pdf”.
Il progetto MyERN
L’Università di Torino, in collaborazione con il think tank T.wai, ha avviato dal 2019 il progetto MyERN. Di cosa si tratta, lo spiega il professor Gabusi: “L’iniziativa ha radici nel 2014, quando abbiamo iniziato a occuparci di Myanmar, un paese che ha un certo legame con Torino e il Piemonte”. “Questo spazio dedicato alla ricerca europea nasce quindi non solo per inserirsi in un contesto già attivo e che necessitava di sostegno da parte dell’accademia, ma anche per creare una rete di ricercatori tra Ue e Myanmar. In questo senso significava non solo costruire un’alternativa europea post-Brexit (il Regno Unito rimane il paese più legato alla Birmania, che era parte dell’Impero), ma anche offrire spazi di collaborazione e capacity-building ai colleghi birmani”. “Al netto della contingenza con l’anniversario del golpe del 1°febbraio”, prosegue Ruzza, citando l’ultima conferenza organizzata a febbraio, “c’è l’intenzione di tenere viva l’attenzione su quello che accade nel paese.”
Di Sabrina Moles
Formazione in Lingua e letteratura cinese e specializzazione in scienze internazionali, scrive di temi ambientali per China Files con la rubrica “Sustainalytics”. Collabora con diverse testate ed emittenti radio, occupandosi soprattutto di energia e sostenibilità ambientale.