Muzaffarnagar Baaqi Hai: le violenze dietro la Modi Wave

In by Gabriele Battaglia

Muzaffarnagar Baaqi Hai è un documentario uscito all’inizio del 2015 diretto e prodotto da Nakul Singh Sawhney. Si tratta di un documento storico che imprigiona su video la stagione di violenze settarie che ha contribuito al trionfo di Narendra Modi e del Bharatiya Janata Party (Bjp) alle scorse elezioni nazionali. Una «Modi Wave», come la si raccontava allora, che nelle campagne dell’Uttar Pradesh occidentale ha travolto la convivenza intercomunitaria tra il gruppo dei Jat di fede hindu e i musulmani, sfociando in violenze apparentemente inspiegabili nel distretto di Muzaffarnagar, nell’estate del 2013. Alla ricerca delle responsabilità personali e politiche di decine di morti trucidati e migliaia di musulmani in fuga dai loro villaggi, Sawhney mostra l’inquietante radiografia del terrore di matrice politica che, (soprattutto) nelle campagne, si sostituisce alla «democrazia partitica» indiana.I Muzaffarnagar Riots del 2013, fuori dall’India, sono colpevolmente passati quasi inosservati, schiacciati dalla macchina della propaganda modiana che già a pieno regime imponeva ai media fuori e dentro il subcontinente l’agenda del racconto mediatico delle elezioni nazionali del 2014: l’ascesa di Narendra Modi, già chief minister del Gujarat dalle decantate umili origini, pronto a guidare l’India verso nuovi orizzonti di gloria e progresso, in una imminente rivoluzione del capitale.

Ma dietro al baraccone scintillante dei comizi di Modi, lontano dai riflettori internazionali, nelle campagne dell’Uttar Pradesh occidentale si consumava una tragedia di proporzioni inimmaginabili all’interno del frame dell’India pacificata da NaMo: 62 morti (42 musulmani, 20 hindu) e almeno cinquantamila tra uomini, donne e bambini musulmani in fuga dai propri villaggi per paura di una nuova esplosione di violenza settaria.

«Divide et impera» nell’India rurale
La telecamera di Sawhney indaga nel sottobosco della «realpolitik» indiana, un paese dove le elezioni si vincono col voto delle campagne, con la presenza capillare sul territorio e grazie alla conoscenza sensibile delle dinamiche locali. Tre caratteristiche che il Bjp di Narendra Modi e Amit Shah ha portato a livelli di perfezione diabolica, facendo uso disinibito di sigle dell’ultrainduismo (Vishwa Hindu Parishad, Rashtriya Swayamsevak Sangh, Bajrang Dal etc.) per sobillare rivolte, diffondere paura, creare fratture sociali all’interno di ecosistemi compositi, dove la pace intercomunitaria si era saldata attorno a necessità «di classe» più che di religione o di casta.

Così è stato Muzaffarnagar fino agli inizi del 2013: un territorio dominato dalle colture della canna da zucchero, che impiegano una manodopera di varia estrazione castale e religiosa ma medesima classe, contadini. Le gerarchie rurali, coi Jat proprietari terrieri e la manovalanza dalit o musulmana, convivevano pacificamente da decine di anni, legati da rapporti lavorativi interdipendenti – seppur difficilmente egualitari – e interazioni sociali felicemente inevitabili: compagni di scuola e di feste, inviti incrociati a celebrare ora Holi ora Eid, rapporti di vicinato nella norma del muliculturalismo indiano.

Tutto cambia alla chiamata alle urne, che nell’India rurale segue traiettorie settarie sovradeterminate dalla politica «di palazzo», in cerca di divisioni da marcare nel tessuto sociale per poi raccogliere voti in massa nei gruppi di riferimento. E l’Uttar Pradesh, dove il Bjp è stato spesso destinato a percentuali irrisorie schiacciato dai successi recenti del Bahujan Samaj Party (Bsp, guidato dall’eroina dei dalit Mayawati) e del Samajwadi Party (Sp, gestito dalla dinastia dei Yadav), porta in dote 80 seggi alla Lok Sabha, la camera bassa del parlamento indiano: più di ogni altro stato federato dell’Unione indiana.

Caccia al musulmano
Così l’aritmetica delle urne impone al Bjp a caccia di consensi la strategia del «divide et impera». La campagna d’odio prende forma nei primi mesi del 2013, con notizie di giovani musulmani rei di aver molestato una ragazza hindu, nella classica trasposizione delle discriminazioni di genere – in India spiccatamente interreligiose – declinata ad arma contundente dell’identità hindu. Prendono fiato gli spauracchi della Love Jihad, della demonizzazione del vicino mangiatore di manzo anti-indiano; si manifestano le prime violenze intercomunitarie, rafforzate da comizi al vetriolo da parte di esponenti del Bjp – compreso Amit Shah, il braccio destro di Modi recentemente riconfermato alla guida del partito. Mentre monta la tensione, le forze dell’ordine – controllate dal governo locale del Sp – lasciano correre, probabilmente in virtù di un calcolo politico che avrebbe dovuto premiare l’amministrazione Yadav alle urne.

La situazione sfugge al controllo generale coi pogrom del 7 e 8 settembre 2013: centinaia di hindu, armati di pistole, bastoni e spade, attaccano alcuni villaggi del distretto di Muzaffarnagar, massacrando decine di musulmani e devastando abitazioni e moschee. A decine di migliaia fuggono dalle proprie case, rifugiandosi letteralmente in campi profughi, senza cibo, vestiti o acqua per tutto l’inverno, mentre la politica si rimpalla la responsabilità delle violenze denunciando il clima di insicurezza dovuto all’inazione del Sp.

Qualche mese dopo, chiamati alle urne, i cittadini dell’Uttar Pradesh premieranno in massa la retorica securitaria del Bjp, che vincerà 71 seggi su 80 (record storico per la destra indiana), sbaragliando la concorrenza del Sp e del – moribondo – Indian National Congress.

Il problema dell’identità indiana e la minaccia dell’egemonia hindu
Le due ore di documentario mostrano impietosamente i limiti, mai sormontati, della mancata creazione di un’identità nazionale davvero sovracastista e sovrareligiosa che permetta alla società multiculturale indiana di reggere contro gli scossoni settari che, puntualmente, arrivano a scombussolare i delicati equilibri intercomunitari; svelano l’impalcatura estremista su cui si è costruito il nuovo sogno indiano di Narendra Modi, nell’illusione che il capitale e la prosperità annunciata – ma che tarda ad arrivare – possano rappresentare le forze pacificatrici di un paese senza collante, preda dei deliri settari eterodiretti dalla medesima politica che predica ordine e sicurezza per «il bene di tutti». E che invece prospera, nel calcolo politico miope del medio termine, giocando a dividere l’India e gli indiani lungo confini sociali di volta in volta aggiornati – hindu contro musulmani, hindu contro dalit, dalit contro musulmani – per poi correre in soccorso del paese con ricette confuse che si scrivono «India unita» ma si leggono «identitarismo hindu».

Il timore è che nell’era di Modi si stia assistendo al tentativo più ambizioso di plasmare una nuova identità panindiana, imponendo codici e costumi derivati dalla tradizione hindu, minacciando il sogno – probabilmente mai avveratosi – di una società democratica, pacifica e multiculturale che abbracci la preziosissima e sterminata diversità che, nonostante tutto, si ostina a nascere, crescere e calpestare la terra che «alcuni hindu» vorrebbero patria esclusiva di «alcuni hindu»

[Scritto per East online; foto credit: youtube.com]