A quattro anni dal suo debutto al World Economic Forum, lo scorso gennaio il presidente cinese Xi Jinping è tornato a intrattenere la platea di Davos (stavolta da remoto) con una nuova dichiarazione d’amore al multilateralismo. Letteralmente: “dobbiamo costruire un’economia mondiale aperta … abbandonare standard, regole e sistemi discriminatori ed escludenti, e abbattere le barriere al commercio, agli investimenti e agli scambi tecnologici”. Il tempismo non è casuale. Pandemia a parte, in entrambi le occasioni, il ricambio ai vertici della Casa Bianca pare avere influenzato marcatamente lo spartito di Xi.
Se nel 2017 l’inno alla globalizzazione anticipò di un soffio l’inizio di una presidenza Trump all’insegna dell’America First, quest’anno il messaggio è stato ribadito a stretto giro dall’insediamento di Biden e dal preannunciato ritorno di Washington ai tavoli internazionali. Gli Stati uniti sono ancora una volta il destinatario implicito del messaggio. “La governance internazionale deve basarsi su regole e consenso”, non sul diktat di pochi ha sentenziato Xi, denunciando tra le righe le storture di un ordine mondiale da oltre settant’anni a guida statunitense.
Non è chiaro se sia un invito a collaborare o l’anticipazione di una spinta revisionista “con caratteristiche cinesi”. Certo è che la martellante ricorrenza della parola “multilateralismo” (pronunciata da Xi una ventina di volte) rivela molto sulle velleità globali di Pechino. Non è stato sempre così.
Fin dalla fondazione della Repubblica popolare la leadership cinese ha continuato a nutrire profondi sospetti nei confronti delle organizzazioni internazionali, considerate da Mao Zedong strumenti al servizio dell’imperialismo occidentale. Le cose sono cambiate radicalmente al volgere del nuovo secolo, con l’ingresso della Cina nella WTO, esattamente venti anni fa. Da allora, grazie al basso costo del lavoro, l’ex fabbrica del mondo è stata uno dei paesi ad avere beneficiato di più della globalizzazione. Numeri alla mano, se nel 2001 l’economia cinese rappresentava appena il 4% del Pil mondiale, oggi la proporzione è salita a oltre il 16%. Di riflesso, a un maggiore peso economico ha corrisposto una partecipazione più attiva nel processo di “order shaping” con un occhio particolarmente attento alle esigenze del Sud globale e dei paesi in via di sviluppo, di cui la Cina si considera capofila. Un processo favorito negli ultimi anni dal disimpegno statunitense. Davanti al protezionismo trumpiano, l’ex Celeste Impero ha aperto il mercato interno agli investimenti stranieri, ha guidato la lotta contro i cambiamenti climatici e diretto i negoziati per il Partenariato economico globale regionale (RCEP), l’accordo commerciale più grande al mondo che riunisce quindici paesi dell’Asia-Pacifico.
Le implicazioni dell’estroversione cinese sono dirompenti. Non solo è aumentato l’engagement di Pechino nelle organizzazioni internazionali. Nell’ultimo decennio, l’ascesa di una Cina multilateralista e la creazione di nuove istituzioni a sua immagine e somiglianza stanno portando alla nascita di un ordine parallelo a quello più propriamente liberale, che anche i paesi democratici tendono ad abbracciare con l’illusione di riuscire prima o poi a orientarne l’evoluzione dall’interno. Qualcuno obietta che la postura cinese manca dei tratti fondamentali del multilateralismo in senso proprio: reciprocità e regole condivise che limitino l’autonomia individuale.
Un esempio è la Belt and Road Initiative (e la sua superbanca AIIB), lanciata da Pechino nel 2013 per colmare il gap infrastrutturale eurasiatico e diventata nel corso del tempo un nuovo format per le relazioni bilaterali con il resto del mondo. Come segnala Alessia Amighini, associate senior research fellow dell’ISPI, il dibattito in alcuni circoli intellettuali cinesi lascia presagire un’ulteriore evoluzione se ad avere la meglio sarà la fazione che spinge per rendere la BRI a tutti gli effetti un’istituzione operativa per le nazioni in via di sviluppo, con sede centrale in Europa e funzioni consulenziali sulla falsariga dell’OCSE. Ma con standard cinesi.
C’è chi rabbrividisce al solo pensiero. D’altronde, il successo delle iniziative sinocentriche riflette l’inadeguatezza del vecchio ordine transatlantico davanti ai nuovi equilibri mondiali. A Pechino va la colpa o il merito di aver saputo esercitare questa “external innovation” per massimizzare i propri interessi nazionali, e non sempre nel rispetto delle norme condivise. Non è un caso che il debutto dell’Africa nell’agenda del G20 abbia coinciso con la presidenza cinese, nel 2016. Snodo cruciale della BRI, il continente è tornato sotto i riflettori la scorsa primavera con il lancio della Debt Service Suspension Initiative (DSSI), piattaforma che la Cina – tra i principali creditori dei paesi africani – è riuscita a sfruttare per rifarsi il trucco agli occhi dei debitori, rubando la scena agli altri 19.
Il programma del G20 italiano lascia presagire un coinvolgimento cinese anche maggiore considerata la preminenza di dossier (pandemia, cambiamenti climatici, innovazione e lotta contro povertà) che il gigante asiatico ha dimostrato di sapere maneggiare egregiamente. Questa predilezione cinese per il Gruppo dei 20 nel “coordinamento delle politiche macroeconomiche” (copyright Xi Jinping) si manifesta con tempismo non fortuito proprio mentre il G7 attraversa una fase di declino.
Fino a trent’anni fa emanazione del 70% del Pil mondiale, oggi i “magnifici sette” messi insieme formano appena il 45% del totale. Da qui la proposta britannica di ampliare la membership per accrescerne il peso economico, ma non solo. Nei piani di Boris Johnson estendere l’invito a India, Corea del Sud e Australia permetterebbe contemporaneamente di includere quell’Asia democratica a cui l’Occidente strizza l’occhio per contenere la Cina. L’ipotesi di un D10 non dispiace all’America di Biden: resuscitare le vecchie alleanze regionali è già in cima alle priorità. Ma la nascita di una coalizione dichiaratamente anticinese mette a disagio l’Unione europea, determinata a mantenere cordiali rapporti (economici) con Pechino malgrado le abissali divergenze ideologiche e valoriali. Come il disaccoppiamento tecnologico, l’idea di un “decoupling politico” resta impraticabile davanti alle nuove sfide globali. E la Cina lo sa bene.
[Pubblicato su Federmanager]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.