Dopo le elezioni australiane dello scorso maggio, sia Canberra sia Wellington sono guidate da governi laburisti. I due Paesi sono accomunati da un profondo legame con gli Stati Uniti, ma hanno approcci differenti alla crescente assertività cinese. La cooperazione con ASEAN potrebbe giocare una parte importante nella stabilità della regione.
L’Associazione Italia-Asean nasce nel 2015. La sua missione è quella di rafforzare il legame e rendere più evidenti le reciproche opportunità, sia per le imprese che per le istituzioni. Qui pubblichiamo la newsletter Italia-Asean del 5 agosto.
Nelle elezioni australiane dello scorso maggio il laburista Anthony Albanese ha sconfitto il primo ministro liberale uscente Scott Morrison. Dopo il cambio di amministrazione a Canberra, sia Australia sia Nuova Zelanda sono guidate da governi laburisti. Entrambi i governi giocano una partita complessa nello scacchiere Indo-pacifico. Da un lato, i due Paesi rappresentano l’estremità australe dell’“anglosfera” (nonché della relativa alleanza di intelligence Five Eyes) e sono partner chiave degli Stati Uniti – insomma un pezzo di “Occidente” ad Estremo Oriente. Dall’altro, i loro rapporti con i Paesi asiatici vicini sono scanditi da alterne fasi di diffidenza e fiducia, cooperazione e tensione. Quale sarà dunque la strategia indo-pacifica di Australia e Nuova Zelanda nei prossimi anni?
Già durante la campagna elettorale il Partito laburista australiano aveva espresso con vigore il suo supporto al Quadrilateral Security Dialogue (Quad, comprendente Australia, India, Giappone e Stati Uniti) e all’AUKUS (che lega Canberra a USA e Regno Unito), accordi nei quali i precedenti governi liberal-nazionali si erano impegnati rispettivamente nel 2017 e nel 2021. Appena tre giorni dopo la vittoria elettorale, il nuovo primo ministro Albanese era già a Tokyo per il summit dei leader Quad, in occasione del quale ha confermato che il suo governo avrebbe continuato a sostenere il Dialogue. Allo stesso tempo, il governo Albanese intende porsi in discontinuità riguardo a certi aspetti della politica estera dei precedenti esecutivi di centro-destra, inaugurando una nuova fase di engagement con le nazioni del Pacifico e di impegno nella cooperazione climatica internazionale. I governi Morrison si erano sempre opposti alle politiche di lotta al cambiamento climatico – anche quando buona parte del Paese era avvolta nelle fiamme tra 2019 e 2020 – e l’innalzamento del livello dei mari è una minaccia esistenziale per molti Paesi della regione: non sorprende dunque che l’Australia negli ultimi anni godesse di poco credito presso gli Stati insulari della regione più vulnerabili al riscaldamento globale. La nuova ministra degli esteri Penny Wong ha promesso inoltre di aumentare il supporto finanziario per i Paesi del Sud-est asiatico, anche per togliere spazio alla crescente influenza cinese nella regione – Wong è arrivata a definire il recente patto di sicurezza tra Cina e Isole Salomone il “peggior fallimento della politica estera australiana nel Pacifico dalla fine della Seconda Guerra Mondiale”.
In effetti, l’espandersi dell’influenza militare dei grandi Paesi asiatici è da sempre vista come una minaccia da Canberra: a inizio secolo era il Giappone, nella seconda metà del Novecento la Cina e in misura minore l’Indonesia. Il miglioramento dei rapporti tra Pechino e Washington negli anni Settanta aveva rasserenato anche gli australiani che avevano iniziato a vedere nell’Asia un’opportunità anziché una minaccia. Negli anni Novanta, un altro primo ministro laburista, Paul Keating, aveva efficacemente riassunto il cambio di paradigma poco prima di concludere un accordo di sicurezza con Giacarta: l’Australia doveva perseguire la propria sicurezza “in Asia, non dall’Asia”. I rapporti tra Australia e Cina sono rimasti eccellenti per decenni e ancora erano tali quando Xi Jinping si recò nel Paese nel 2014 per una visita ufficiale culminata in uno storico discorso al Parlamento australiano. Ciononostante, il deterioramento dei rapporti tra Cina e USA negli ultimi anni è stato accompagnato da un irrigidimento della politica estera rispetto a Pechino anche di Canberra. Passano i decenni, ma gli australiani continuano a seguire gli alleati americani.
La Nuova Zelanda sembra invece aver assunto una posizione più sfumata di recente rispetto alla strategia americana per l’Indo-pacifico. A inizio luglio, la prima ministra Jacinda Ardern ha invitato ad essere più cauti rispetto alla presenza cinese nella regione. Per Ardern è infatti sbagliato considerare le recenti azioni di Pechino come una “novità” rispetto alla quale i governi dovrebbero prendere schierarsi a favore o contro: “il mondo è dannatamente incasinato (bloody messy). Eppure, in mezzo a tutta la complessità, noi continuiamo spesso a vedere le questioni in bianco o nero”. La cautela di Ardern si contrappone alla posizione tranchant assunta da Joe Biden, secondo il quale è in corso una battaglia tra democrazia e autocrazia nel mondo che impone ad ogni governo di scegliere da che parte stare. Wellington auspica una de-escalation delle tensioni nella regione e una maggiore cooperazione tra tutti gli attori, anche qualora Pechino si facesse ancora più assertiva. I neozelandesi comunque non rimangono indifferenti di fronte alle manovre cinesi: anche loro, come l’Australia e gli USA, hanno espresso un certo allarme rispetto all’accordo di difesa Cina-Isole Salomone.
Australia e Nuova Zelanda si trovano in una posizione non dissimile dai Paesi ASEAN, coinvolti quasi loro malgrado nella competizione strategica tra Stati Uniti e Cina. Wellington sembra intenzionata a seguire una strategia simile a quella impiegata da altri governi della regione: dialogare con la Pechino senza rinunciare alla cooperazione strategica con Washington. Canberra invece sembra più rigida nelle sue preoccupazioni per la sicurezza e più in linea con la visione di Biden. Entrambi i governi però potrebbero trarre giovamento da una maggiore cooperazione proprio con i Paesi ASEAN: l’organizzazione regionale infatti costituisce un fattore di stabilità nella regione e un partner centrale, come riconosciuto anche in sede Quad, che potrebbe bilanciare l’assertività cinese. Il nuovo governo laburista australiano dovrebbe però accettare di cooperare con l’ASEAN su altri temi e non esclusivamente sulla sicurezza: un rafforzamento dei legami economici e politici è propedeutico e necessario rispetto ad altre forme di cooperazione più sensibili. La cooperazione climatica internazionale potrebbe costituire un primo banco di prova e, come abbiamo visto, i due governi laburisti a Canberra e Wellington hanno espresso la loro intenzione di costruire nuove partnership con gli altri governi dell’Indo-pacifico.
A cura di Pierfrancesco Mattiolo
La mobilità green conquista l’ASEAN
L’’Asia è il continente con 93 delle 100 città più inquinate del mondo. Tre le prime 300 città ne rientrano anche alcune della Thailandia, Malesia e del Vietnam. Il settore dei trasporti è uno dei maggiori responsabili dell’aumento di gas serra nell’atmosfera, perciò il Sud-Est asiatico sta concentrando sforzi ed investimenti nello sviluppo e nell’allargamento di questo settore economico. Vinfast, la punta di diamante del mercato EV vietnamita, è ormai ben conosciuta negli Stati Uniti, dove ha aperto un impianto di produzione. Mentre City Energy, un fornitore di gas di Singapore, cerca di risolvere uno dei problemi maggiori nella catena di approvvigionamento dei veicoli elettrici, ossia il network di ricarica. City Energy investirà 72 milioni di dollari americani per costruire 13 stazioni, molte di queste lungo l’autostrada Nord-Sud della Malesia. Altri si contendono il potenziale di crescita di questo settore. A Singapore, dove il governo si è imposto come obiettivo la circolazione esclusivamente di auto elettriche entro il 2040, al comando del mercato EV c’è la francese TotalEnergies, mentre il gigante Shell ha installato la stazione di ricarica più veloce della regione a sud di Malay. Tornando alla città stato, Grab, il servizio di consegna che opera anche in Indonesia, Thailandia e Vietnam, recentemente ha fissato l’obiettivo zero emissioni entro il 2040. Il servizio trasporti e consegna nel Sud-Est asiatico dovrebbe raggiungere i 42 miliardi di dollari americani di fatturato entro il 2025:per questo motivo la sfida di Grab sarà di creare le condizioni per la transizione dei guidatori indipendenti, senza impattarne eccessivamente i guadagni. Secondo una ricerca di McKinsey, una delle sfide più ardue per l’ASEAN è il total cost ownership o TCO, cioè il costo totale di possesso della tecnologia in una azienda. Gli EV in ASEAN hanno un prezzo superiore alle equivalenti europee e giapponesi, che sono inaccessibili per la maggior parte delle famiglie. McKinsey stima che la parità del TCO non sarà raggiunta entro il 2030, rallentando la transizione dei Paesi ASEAN.
L’Asia combatte la fame con l’agritech
In Asia orientale è in corso una rivoluzione dell’agritech che mira ad affrontare sfide sistemiche come l’inflazione, i cambiamenti climatici, la stabilità delle catene di approvvigionamento, la fame. La diffusione di sofisticate tecnologie nel settore alimentare riduce l’impiego di prodotti chimici, energia, acqua e terra, rispettando con ciò anche i limiti di sostenibilità dello sfruttamento ambientale in modo che si possa “produrre di più con meno”. I prezzi dei prodotti agricoli, infatti, sono in aumento in tutta l’Asia. Le conseguenze del cambiamento climatico come fenomeno meteorologici estremi, siccità e nubifragi, interrompono periodicamente le catene di approvvigionamento globali. La pandemia e la guerra in Ucraina non hanno fatto che aggravare la precarietà della sicurezza alimentare in tutta la regione e nel mondo. Nel frattempo, come abbiamo sottolineato anche nella precedente newsletter, si prevede che la popolazione aumenterà rapidamente nei prossimi anni, raggiungendo circa 5,3 miliardi di persone nel 2050. L’accesso a un’alimentazione adeguata sarà la priorità nell’agenda politica dei governi dell’Asia. In questo scenario, la rivoluzione agritech potrebbe rappresentare la chiave per far sì che sempre meno persone soffrano la fame, senza dover ricorrere allo sfruttamento intensivo di terreni, o a sistemi di produzione insostenibili e inquinanti. Le fattorie indoor, ad esempio, possono controllare pioggia, luce solare e calore. Il mantenimento di microclimi artificiali è controllato da un sistema di tecnologie automatizzate che uccide persino i batteri con i raggi ultravioletti. Ma esistono anche idee più all’avanguardia, come quella dell’azienda giapponese Mebiol che ha portato la sua tecnologia nello spazio ed è riuscita a coltivare piante a gravità zero attraverso un foglio di idrogel. Ancora in Vietnam esistono serre di rocce brevettate per sostenere microbiologicamente la vita dei vegetali, da cui spuntano lattuga e basilico. L’agrotecnologia permetterà di liberare i terreni scarsi e provati dall’uso intensivo, per spostare la produzione su edifici, tetti, e a volte persino nello spazio.