Mondo Asean – Innovazione a Singapore, lavoro in Indonesia e “Secolo asiatico”

In Mondo Asean, Sud Est Asiatico by Redazione

L’Associazione Italia-Asean nasce nel 2015, un fatto importante che si inserisce in un contesto cruciale per l’Italia, l’Europa e i paesi parte dell’Asean. La sua missione è quella di rafforzare il legame e rendere più evidenti le reciproche opportunità, sia per le imprese che per le istituzioni. Qui pubblichiamo la newsletter Italia-Asean del 16 ottobre.

Singapore tra Innovazione e Rinnovamento

Nell’attuale contesto di crisi pandemica, innovazione tecnologica e capacità di rinnovamento saranno cruciali per determinare il futuro del modello Singapore

La straordinaria trasformazione di Singapore da avamposto commerciale del fu impero britannico a vibrante centro economico del nascente mondo globalizzato è motivo di orgoglio per i Singaporiani e materia di studio per il resto del mondo. Al tempo dell’espulsione dalla Federazione della Malesia, nel 1965, la “Città del Leone” era una piccola isola all’estremo della penisola malese, senza risorse naturali, a parte una posizione geografica strategica ed il potenziale ancora inesplorato di una popolazione giovane e volenterosa formata in gran parte da migranti cinesi. Eppure, nei due decenni immediatamente successivi all’indipendenza, l’economia singaporiana ha registrato una crescita dell’8,5% annuo e, come ricordano spesso i suoi governanti, la neonata città-stato è passata dal terzo mondo al primo nel giro di appena una generazione.

In molti si sono chiesti quale sia il segreto del successo di Singapore: posizione geografica o conformazione demografica; identità culturale o regime politico; fattori importanti ma, di per sé, non determinanti. “La risposta semplice – secondo l’ex diplomatico singaporiano Kishore Mahbubani – è una leadership fuori dal comune.” Una classe dirigente formata nelle migliori università del Regno Unito e tornata a Singapore con l’ambizione di mettere il tradizionale pragmatismo britannico al servizio del nascente sentimento nazionale. Lo stesso Lee Kuan Yew, padre fondatore e Primo Ministro di Singapore, l’uomo che ha governato la città stato, direttamente e indirettamente per oltre 50 anni, sosteneva che il successo del modello Singapore derivasse dalla sua capacità di rispondere efficacemente all’emergere di nuove situazioni.

Effettivamente il grandioso sviluppo di Singapore non sarebbe forse stato possibile se i suoi leader non fossero stati guidati nelle loro scelte da una salda fede nell’innovazione tecnologica e da una ferma convinzione che anche il successo economico dipenda dalla capacità di innovarsi e rinnovarsi. È anche in virtù di questa ‘fede’ che una città-stato conosciuta oggi in tutto il mondo come hub commerciale e finanziario non ha mai voluto rinunciare al settore manifatturiero. Il manifatturiero, motore della crescita economica degli anni ’60, ha attraversato una grande trasformazione tecnologica e rappresenta oggi un settore ad alto valore aggiunto che vale il 20% del PIL. Meg Whitman, CEO di Hewlett Packard Enterprise, una delle tante grandi aziende che ha deciso di puntare su Singapore, ha soprannominato la città-stato una “Silicon Valley in miniatura”. Le notizie di queste settimane sembrano confermarlo: messe alla porta nell’America di Donald Trump, le cinesi ByteDance e Tencent hanno pensato di ripartire proprio da Singapore con investimenti di svariati miliardi di dollari.

Da diversi anni ormai Singapore occupa le prime posizioni del Global Competitiveness Index e dell’Ease of Doing Business Index, solo per citare due degli innumerevoli indicatori mondiali che celebrano la città-stato come uno dei miglior luoghi al mondo per fare impresa. Ciò è possibile non solo grazie all’avanzato sistema finanziario e giudiziario, ma anche grazie a infrastrutture fisiche e digitali all’avanguardia. E’ proprio su queste ultime che il governo intende puntare per superare la crisi innescata dalla pandemia di Covid-19, che ha trascinato la città-stato nella peggiore recessione dal 1965. Singapore, nelle parole dell’attuale Primo Ministro Lee Hsien Loong, si deve preparare ad “un futuro molto diverso” che, come ha spiegato un alto funzionario al Financial Times, sarà fatto di “bit e byte, cavi sottomarini e dati”, non solo cargo e container.

L’esecutivo ci stava lavorando da tempo: il Covid-19 ha reso necessaria un’accelerata. Già un anno fa, infatti, l’Enterprise Development Board, l’agenzia governativa che da sempre guida lo sviluppo industriale del Paese, presentava ai potenziali investitori esteri i risultati già ottenuti: la più grande concentrazione di cavi sottomarini al mondo, la connessione a banda larga più veloce ed un tasso di penetrazione di cellulari e smartphone del 159%. Il Digital Readiness Index 2019, l’indicatore elaborato da Cisco per identificare i Paesi più preparati ad accogliere le sfide della digitalizzazione, collocava Singapore al primo posto. Complice anche la crescente tensione tra Stati Uniti e Cina e la rapida involuzione della situazione di Hong Kong, anche grandi multinazionali del calibro di Amazon e Alibaba non hanno potuto resistere alla chiamata.

Cinque anni fa, Kishore Mahbubani, in un libro dal titolo evocativo, “Può Singapore Sopravvivere?”, individuava tre pericoli che la città-stato avrebbe dovuto affrontare negli anni a venire: la sfida del populismo, lo scontro geopolitico tra Stati Uniti e Cina, ed un ‘Cigno Nero’, un evento estremamente raro e difficile da prevedere che avrebbe messo in questione la posizione di Singapore nell’ordine mondiale. Almeno per quanto riguarda la sua dimensione internazionale, la profezia può dirsi avverata nel 2020. Dopo un iniziale momento di smarrimento, Singapore sembra aver reagito tornando in sé stessa: una città-stato connessa con il mondo, seppure attraverso nuove vie digitali, senza rinunciare mai all’ambizione di essere amica di tutti e nemica di nessuno. La fede nell’innovazione che ha accompagnato Singapore sin dalla nascita potrebbe garantirle ora la sopravvivenza.

A cura di Francesco Brusaporco

La discussa riforma del lavoro in Indonesia

Da settimane ormai in Indonesia imperversano le proteste contro la discussa “Legge Omnibus”, storica riforma del mercato del lavoro, fortemente voluta dal Presidente Joko Widodo. La legge, che giunge dopo anni di falliti tentativi di ristrutturazione normativa, modifica, in 905 pagine, 79 disposizioni legislative in materia di lavoro ed è stata approvata in Parlamento con il sostegno di sette partiti su nove. Ora i due contrari, quello dell’ex Presidente Yudhoyono e una formazione islamista, promettono battaglia, mentre la Confederation of All Indonesian Workers Unions (quasi 5 milioni di aderenti) vuole sottoporre il caso alla Corte costituzionale. La legge è una pietra miliare del processo di riforma che Jokowi ha in mente per rendere il Paese più reattivo ed efficiente sul piano produttivo e meglio competere con Malesia, Vietnam e Thailandia, da sempre obiettivo fondamentale del Presidente Widodo, e spesso preferite all’Indonesia dagli investitori internazionali. Circa il 90% della legge, infatti, mira a rendere in Paese un’area attraente per aziende straniere in cerca di nuovi segmenti di mercato e delocalizzazioni. Si punta anche ad una rapida riduzione della tassazione, sia sui dividendi che vengano reinvestiti localmente sia sui redditi delle aziende, ma il progetto, secondo gli oppositori e i manifestanti, se snellisce la burocrazia e modernizza la macchina statale, tiene poco in conto i diritti dei lavoratori e la salvaguardia dell’ambiente. Le proteste e i disordini sociali si ineriscono nel complesso contesto della pandemia, che ha negato al Paese milioni di dollari di investimenti nel 2020. Il governo indonesiano non mostra comunque cenni di cedimento e, anzi, rivendica il successo di aver portato a casa in pochi mesi un risultato così importante, che garantirà all’economia indonesiana maggiori investimenti e la creazione di nuovi posti di lavoro, una boccata d’aria fresca in uno scenario di recessione mondiale.

Chi contribuirà a rendere questo il “Secolo asiatico”?

Molti osservatori si chiedono se i tempi che stiamo vivendo siano maturi per far diventare il continente asiatico leader e protagonista sulla scena mondiale. La rivoluzione industriale, il colonialismo e due guerre mondiali diedero prima all’Europa e poi agli Stati Uniti un potere economico e politico globale ma, ad oggi, con più della metà della popolazione che vi abita e una forza economica dirompente, l’Asia è pronta a prenderne il posto. Come afferma Valerio Bordonaro, Direttore dell’Associazione Italia-ASEAN, la pandemia di Covid-19 ha accelerato tendenze, già fortemente in atto, quali digitalizzazione e affermazione di un sistema globale multipolare, con una governance diffusa e multilivello, che l’Asia saprà opportunamente gestire e, anzi, cavalcare. Oltre ai colossi cinesi, giapponesi, indiani e coreani, anno dopo anno, cresce l’influenza dell’ASEAN sulla scena internazionale. I Paesi del Sud-Est asiatico, uniti e ben coordinati tra loro, potrebbero apportare un contributo vitale e indispensabile alla costruzione del “Secolo asiatico”. Per alcuni di essi, uno su tutti il Vietnam, si parla addirittura di miracolo asiatico e di “segno +” nel 2020, mentre quasi tutte le economie del pianeta assisteranno ad una recessione inevitabile. Singapore ha saputo, dal canto suo, cogliere invece le opportunità scaturite dalla crisi e mostrarsi al mondo come hub principale sui temi della tecnologia e dell’innovazione, apportando sicuramente un contributo fondamentale alla serie di successi che il continente a scadenza fissa registra. Se quindi il commercio intra regionale ha subito un calo, gli Stati membri dell’ASEAN sono riusciti a mantenere un buon livello di investimenti dall’estero, ponendosi come alternativa alla Cina, che rimane comunque un partner fondamentale della regione, e attirando società europee e occidentali in senso ampio. Le prossime scelte interne sia geopolitiche che commerciali saranno quindi dei fattori fondamentali per il successo dell’Asia a tutti i livelli e in tutti i campi.

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