L’Associazione Italia-Asean nasce nel 2015, un fatto importante che si inserisce in un contesto cruciale per l’Italia, l’Europa e i paesi parte dell’Asean. La sua missione è quella di rafforzare il legame e rendere più evidenti le reciproche opportunità, sia per le imprese che per le istituzioni. Qui pubblichiamo la newsletter Italia-Asean del 9 ottobre.
Nella dichiarazione di Bangkok, documento fondante dell’Associazione, si legge che la pace e la stabilità della regione sono tra gli obiettivi primari dell’ASEAN. Tuttavia, la struttura stessa dell’organizzazione, rende difficile fare progressi significativi e concreti in materia di sicurezza e difesa comune.
L’ASEAN nasce infatti dal raccordo di una serie di principi cardine che sono alla base della fiducia tra i Paesi membri. Questo approccio – definito The ASEAN Way – è fondato sul rispetto della sovranità nazionale, la non interferenza negli affari interni, la rinuncia all’uso della forza come strumento per sedare le dispute e l’unanimità nelle procedure decisionali. Il tema della sicurezza e della difesa comune è dunque sempre stato delicato da trattare, e i progressi in questo settore sono sempre stati modesti.
Negli ultimi decenni, l’Indonesia è stato il Paese che più si è speso per accelerare il processo di integrazione in questo campo. Nel 2003, a margine del 9° ASEAN Summit a Bali, il governo indonesiano riuscì nel suo intento di inserire la ASEAN Security Community tra i tre pilastri fondamentali della struttura dell’Associazione. L’ASEAN Political-Security Community – come viene chiamata dal 2015 – ha rappresentato un passo in avanti notevole verso il rafforzamento dei legami tra i vari Paesi, costituendo una piattaforma utile a risolvere dispute e a favorire il dialogo e la cooperazione in materia di difesa e politica estera. A partire dal 2010 poi, hanno acquisito importanza e centralità anche i Meeting dei Ministri della Difesa dei Paesi ASEAN con i diversi partner internazionali dell’Associazione, dalla Cina, e il Giappone, fino all’Australia e gli USA.
Nonostante i progressi degli ultimi anni però, l’ASEAN fatica ancora ad avanzare verso una comunità concreta nel settore della difesa. La cooperazione al momento è orientata alla consultazione dei partner e al dialogo, e i Paesi membri sono poco inclini alla formulazione di una strategia di lungo periodo comune e condivisa. Sul delicato tema del Mar Cinese Meridionale, che vede coinvolte diverse nazioni dell’ASEAN tra cui Indonesia, Malesia, Filippine e Vietnam, stenta a nascere la strategia comune di lungo periodo che sarebbe necessaria ad affrontare la sfida.
Oggi infatti, il continuo evolvere del contesto geopolitico globale rende chiara la necessità per l’ASEAN di approfondire il discorso sulla sicurezza comune. Il ruolo degli USA nel Pacifico sta cambiando, la Cina avanza nel Mar Cinese Meridionale, lo scontro tra Washington e Pechino apre nuovi scenari e la crisi pandemica ha generato stravolgimenti senza precedenti negli equilibri regionali e globali. Dimensione economica e geopolitica vanno oramai di pari passo, ed è tempo per l’ASEAN di investire nella direzione di maggiori forme di cooperazione anche in materia di difesa.
Il 2020 è un anno particolarmente importante per il settore della sicurezza nei Paesi del Sud-Est asiatico. Ben due nazioni dell’ASEAN, Indonesia e Vietnam, sono infatti membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Un’opportunità unica per far avanzare le priorità della regione ai tavoli diplomatici più rilevanti. La regione del Sud-Est asiatico sta acquisendo sempre maggiore importanza a livello economico e commerciale, ma dovrebbe ora iniziare a costruire anche una dimensione geopolitica per affrontare le nuove sfide con strumenti efficaci. Sarà dunque fondamentale per i Paesi ASEAN continuare nel percorso avviato verso la definizione di una vera e propria comunità di difesa e sicurezza, con l’obiettivo di garantire il principio di pace e stabilità che è alla base dell’Associazione stessa.
(A cura di Tullio Ambrosone e Luca Menghini)
Singapore punta su tecnologia e sostenibilità
Dalla metà del 2020, il numero di aziende intenzionate a digitalizzare i propri sistemi di pagamento è cresciuto esponenzialmente, tanto che i dipendenti della MatchMove, società singaporiana del settore, non riuscivano letteralmente a “tenere il passo”. Tale svolta non è assolutamente casuale, dietro vi sono le politiche di incentivi portate avanti dal governo che ha fortemente spinto in questa direzione, spesso finanziando gli sforzi di digitalizzazione delle aziende anche prima dell’avvento della pandemia. L’esecutivo sovvenziona fino all’80% delle spese di digitalizzazione e fino al 50% per adozione di sistemi di intelligenza artificiale, utilizzata addirittura per rilanciare il turismo, e analisi dei dati, che aiutino ad accrescere gli standard di sicurezza. Tuttavia, anche la pandemia ha accelerato il ritmo di questa trasformazione digitale, poiché le aziende cercano non solo di rispettare il distanziamento sociale potenziando il lavoro a distanza, ma di diventare più produttive e resistenti nel lungo periodo.
Altra sfida che Singapore sta affrontando da tempo è la svolta ecosostenibile, infatti, metropoli sempre più popolose sono impegnate a fronteggiare inquinamento e traffico, tutelando la qualità della vita delle persone. Su questo versante una delle posizioni più avanzate – rileva uno studio IFC (International Finance Corporation del World Bank Group) e pubblicato in Italia dal magazine online dal gruppo Webuild – è occupata proprio da Singapore, considerata ormai la città più green dell’Asia. La città-Stato ha puntato moltissimo su vari settori tra cui quello dei trasporti su ferro e in particolare su una rete metropolitana driverless che ha favorito il movimento delle persone e contribuito a ridurre in modo significativo tanto il congestionamento, quanto l’inquinamento atmosferico. E proprio a marzo scorso, nei giorni dell’esplosione mondiale dell’epidemia da Covid-19, che ha messo a nudo punti di forza e debolezze di Singapore, le autorità cittadine hanno annunciato un piano di investimenti da 43,5 miliardi di dollari da destinare interamente al trasporto su ferro.
Il Vietnam progetta la crescita per i prossimi cinque anni
Durante il primo giorno della 13a seduta del Comitato centrale del Partito Comunista Vietnamita, svoltasi ad Hanoi il 5 ottobre, sono stati analizzati gli obiettivi raggiunti nell’ultima decade e presentati diversi rapporti e piani di sviluppo socioeconomico per rilanciare il Paese nei prossimi 5-10 anni. Il governo vietnamita si prefigge grandi obiettivi e soluzioni per dare impulso all’industrializzazione del Vietnam, con l’ambizione di essere tra le prime economie ASEAN in termini di competitività industriale. Il piano d’azione per l’attuazione entro il 2030 della politica di sviluppo industriale contiene priorità quali: dare impulso all’industria manifatturiera che da sola rappresenterà circa il 40% del PIL, portare il tasso di crescita della produttività del lavoro al 7.5%, accrescere l’indice di competitività industriale e stabilirlo ai vertici tra i Paesi del Sud-Est asiatico. Il piano d’azione preparato dal governo delinea anche soluzioni e mezzi opportuni per raggiungere suddetti obiettivi nei prossimi anni. Verranno infatti varate politiche di sviluppo e agevolazione per le aziende di particolare rilevanza economica e strategica, sviluppando un ambiente industriale favorevole, una tassazione adeguata e migliorando l’efficienza della macchina statale e della autorità locali. Il tasso di competitività delle industrie vietnamite aumenterà anche con il crescere degli investimenti in tecnologia e sostenibilità. Il governo mira a raddoppiare l’uso delle energie rinnovabili e a ridurre le emissioni di carbonio del 15% entro il 2030, il che potrebbe ridurre la dipendenza dal carbone in un Paese fortemente minacciato dai cambiamenti climatici e da continui blackout. Ad oggi, secondo i dati rilasciati dalle autorità, l’energia solare, eolica e le altre energie alternative rappresentano solo il 10% della fornitura di energia elettrica, l’obiettivo è di far salire il dato al 15, anche 20%, in linea con gli l’Accordo di Parigi sul clima del 2015.
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