Secondo Radio Free Asia, un monaco buddista tibetano si sarebbe immolato dandosi fuoco. Potrebbe essere l’ultimo caso di protesta contro Pechino nella regione del Gansu. Con questo le immolazioni dei tibetani arriverebbero a quota 146 negli ultimi anni.L’episodio, riportato da Radio Free Asia, organo di informazione che Pechino considera inviso al potere centrale cinese e fortemente influenzato, quando non direttamente finanziato da Stati stranieri, sarebbe avvenuto nella scorsa serata fuori dalla città di Machu, luogo tradizionalmente tibetano nella provincia del Gansu.
Secondo le cronache gli ufficiali di polizia sarebbero intervenuti in tempo e avrebbero portato via il monaco, sulle cui condizioni però non ci sarebbero ancora notizie. L’ultimo caso porterebbe dunque a quota 146 le immolazioni di tibetani negli ultimi anni, mentre sono stimate in 125 le morti certe. In base al racconto di testimoni, prima dell’estremo gesto, tutti i monaci responsabili di auto immolazione hanno rivendicato o l’indipendenza del Tibet o il ritorno del Dalai Lama, il leader spirituale attualmente costretto all’esilio.
L’episodio riaccende i riflettori sulla lotta decennale tra chi richiede un’autonomia che preservi la cultura e la religione tibetana e il potere centrale di Pechino, che rivendica di aver portato una regione “medievale” allo sviluppo e a migliori condizioni di vita. Non di rado, in occasioni di festività o ricorrenze, il Pcc ricorda tutto quanto fatto per modernizzare una regione che viveva ancora di un’economia per lo più rurale e all’interno della quale vigeva una teocrazia che vedeva al vertice proprio i monaci.
Il Tibet, come il Xinjiang, costituisce una delle regioni che rappresentano il cosiddetto «problema interno» della Cina: espressione di scontri che Pechino ritiene «politica interna» e che la dirigenza comunista difende da ingerenze esterne. Per questo anche di recente il Dalai Lama ha faticato a trovare interlocutori in grado di accogliere in veste ufficiali: si teme che la dirigenza cinese possa prendere decisioni contrarie, da un punto di vista commerciale, ai Paesi che ospitano o invitano in forma ufficiale il leader spirituale del Tibet.
Se nella regione nord occidentale dello Xinjiang non sono infrequenti proteste e azioni violente, dalle quali scaturisce una repressione dura (di recente sarebbe diventato obbligatorio per gli uighuri, la minoranza etnica della regione, girare con i documenti sempre con sé) in Tibet ultimamente la frustrazione contro il partito comunista è stata rappresentata proprio dai monaci e dalle loro estreme azioni.
Le proteste sono viste come espressione finale, e unica arma al proprio arco, della rabbia e della frustrazione sentita da molti tibetani – sia i laici sia i membri del clero buddista – che «vivono sotto il dominio mano pesante di Pechino», secondo quanto scritto dal quotidiano di Hong Kong, il South China Morning Post.
In un nuovo libro scritto proprio sul fenomeno delle auto-immolazioni, lo scrittore e attivista per i diritti tibetani Tsering Woeser descrive questi fatti come «vasto movimento di protesta che continua fino ad oggi, dato che nessun altro metodo è disponibile per i tibetani di esprimere le loro proteste, e perché solo l’orrore di un’auto-immolazione è in grado di catturare l’attenzione del mondo». Per questo il gesto «è diventato la scelta dei manifestanti coraggiosi in Tibet» ha scritto nel suo libro Fire: Self-Immolations Against Chinese Rule.
Il Dalai Lama, esiliato dal 1951 in India e accusato da Pechino di cercare l’indipendenza per il Tibet, evita generalmente di fare commenti sulle auto-immolazioni, ha scritto il quotidiano di Hong Kong, ma nel 2012, ha detto al quotidiano The Hindu che «La realtà è che se dico qualcosa di positivo, poi i cinesi danno la colpa a me immediatamente. Se dico qualcosa di negativo, allora i familiari di queste persone si sentiranno molto tristi».
Il Dalai Lama e la «sua cricca» sono accusati da Pechino di soffiare sul fuoco di queste forme di resistenza, fomentando il sentimento anti cinese. In generale i tibetani hanno da tempo abbandonato la volontà di una reale indipendenza, virando sulla richiesta di una forma autonoma che sia in grado di preservare la propria cultura.
L’accusa nei confronti di Pechino è quella di aver trasformato la regione in una macchina da soldi principalmente per l’etnia han, convertendo luoghi tradizionalmente di preghiera e di culto in novelle Disneyworld della religione.
[Scritto per Eastonline]