«Ogni giorno eseguo dalle quattromila alle cinquemila volte lo stesso movimento». Lavoratori trattati come automi che rivendicano la propria umanità. Un processo su cui lo Stato cinese ha costruito la propria fortuna (non senza costi ambientali e sociali) che raggiunge il suo acme nelle fabbriche Foxconn. Una recensione di Nella fabbrica globale, Vite al lavoro e resistenze operaie nei laboratori della Foxconn.
«Ogni giorno eseguo dalle quattromila alle cinquemila volte lo stesso movimento», racconta un’operaia della Foxconn. Ogni giorno un lavoratore impiegato in una delle fabbriche Foxconn compie dai 18mila ai 20mila movimenti per turno di lavoro. Lo fa in una posizione di lavoro limitata, minuscola, isolata dal resto delle persone, controllata e sorvegliata. Non si può ridere, non si può parlare. Si devono raggiungere gli obiettivi di produzione. Se non ci si riesce, si lavora di più. E quel tempo in più, non è straordinario. E non viene pagato. Poi si va nel dormitorio, dove non si lavora, ma non si vive certamente liberi.
Macchine, automi, piccoli componenti di processi tayloristici e fordisti che tradotti in mandarino significano: ridurre i costi del lavoro. E aumentare il profitto. Dietro agli automi c’è naturalmente un’umanità, vera, carnale, nonostante sia schiacciata dalla schiavitù economica e morale, sancita dai dormitori dove il lavoro non recede, ma permea e asfissia – attraverso la disciplina – ogni momento della propria vita. Sia in linea, sia in camera, si è sottoposti a un ordine, a regole e a un destino bizzarro: ci si aliena per produrre un bene che poi si brama (ad esempio gli smartphone). Dall’altro lato, nelle stanze dei padroni, tutto è scontato: c’è chi deve sottomettersi e subire angherie, senza ottenere alcuna soddisfazione, se non un magro stipendio. Ma con gli stessi strumenti che si producono, ci si organizza, ci si ribella.
Ecco come è nato, come si è sviluppato il processo di crescita cinese, nella sua fase di «fabbrica del mondo»: unendo la velocità d’esecuzione, la sottomissione e l’atomizzazione. C’è molto turn over nelle fabbriche Foxconn: non è un problema in un paese di un miliardo e 400 mila abitanti, desiderosi di diventare «cittadini». Questo processo, su cui lo Stato cinese ha costruito la propria fortuna, non senza costi in termini ambientali e di tensioni sociali, lo spiega perfettamente un volume pubblicato da Ombre Corte, Nella fabbrica globale, Vite al lavoro e resistenze operaie nei laboratori della Foxconn, a cura di F. Gambino e Devi Sacchetto (pp 230, 20 euro). Si tratta di un libro composito, fatto di narrative journalism, di testimonianza e concepito tra analisi, indagine, inchiesta e attenzione a quanto accade anche al di là dei confini, seppure vasti, della Repubblica popolare cinese.
La parola «detta»
Indagini, domande, questionari e non solo. I meriti di questo libro sono tanti. Il primo è quello di entrare nel cuore delle fabbriche e soprattutto parlare con i lavoratori cinesi, un metodo infallibile per capire cosa succeda là dentro. Ambiti di cui spesso abbiamo notizie solo attraverso foto. E le foto non parlano, non raccontano cosa succede in una delle più note aziende al mondo. Una fama che dipende da alcuni fattori. «La Foxconn – come riassumono gli autori del libro – è un’impresa controllata dalla società Hon Hai Precision Industry, fondata nel 1974 da Terry Gou». Oggi è il maggior datore di lavoro al mondo, con i suoi 1,3 milioni circa di occupati. Oltre un milione degli occupati della Foxconn lavorano nella in Cina. «Altri siti di produzione si trovano in Australia, Brasile, Giappone, India, Malesia, Messico, Repubblica ceca, Slovacchia, Turchia e Ungheria»
I lati oscuri e l’obbedienza
Tra il gennaio e il dicembre del 2010 in Cina presso la Foxconn, sono avvenuti 18 tentativi di suicidio con 14 morti e 4 feriti. «La tragedia della cosiddetta “serie di salti”, come è stata battezzata dai media, ha destato grande scalpore». Si tratta, seppure in forme diverse, del risultato delle presunte irregolarità dell’azienda. Parliamo – come scrivono Pun Ngai, Han Yuchen, Guo Yuhua e Lu Huilin nel primo capitolo – di superamento del limite massimo di ore di straordinario, sospetto di infrazione della legge sul lavoro per quanto riguarda il pagamento degli straordinari. La Foxconn è stata anche sospettata di aver violato le norme sui tirocinanti, sulla sicurezza sul lavoro e la prevenzione e il trattamento delle malattie professionali (e a questo proposito il libro presente testimonianze di lavoratori che hanno patito infortuni sul lavoro, senza essere ricompensati dall’azienda).
«Operaie e operai di produzione sono alloggiati in otto in una camera di circa trenta metri quadri, con un bagno separato». Succede nel dormitorio di Wuhan, uno degli esempi portati dagli autori del libro. Un altro elemento rilevante del «mondo Foxconn» è infatti quello relativo al «dormitorio» che non è un luogo di riposo bensì il prolungamento del banco da lavoro e della catena di montaggio. All’interno dei dormitori vige un regime rigido. «Operaie e operai non possono lavare per conto loro i vestiti e nemmeno usare l’asciugacapelli; alle 23 al più tardi devono essere rientrati al dormitorio perché in caso di trasgressione incombe la punizione».
L’intero sistema si regge sul controllo e sulla disciplina. Il dormitorio infatti è una continuazione del luogo di lavoro: si entra attraverso un check-in, c’è un rigido controllo, che di fatto impedisce la libertà di movimento tra i reparti. Non ci si può lavare i vestiti da soli, ma utilizzare il «servizio» di lavanderia. E i dormitori sono controllati da guardie private. A essere spezzate sono le relazioni sociali: quando si entra alla Foxconn, si perdono le relazioni sociali pregresse. E si è impediti ad averne di nuove.
Ford, Taylor e disciplina
«Una produzione intensiva, bassi salari, un sistema di disciplinamento severo così come una divisione sociale e lavorativa degli occupati caratterizzano la situazione negli stabilimenti. La direzione della multinazionale dà infatti per scontata la lesione della dignità degli operai e delle operaie per risparmiare sui costi».
La Foxconn fa lavorare le proprie fabbriche per 24 ore al giorno, attraverso due turni di lavoro: dalle 8 alle 20 e dalle 20 alle 8. Si lavora di notte, si ottengono in alcuni casi solo 4 giorni di festa a settimana, il 73% lavora più di dieci ore. «Un’operaia diceva: “Siamo come granelli di polvere. La responsabile di linea afferma spesso che è uguale se c’è questa o quella alla catena di montaggio. Se te ne vai tu, viene qualcun’altra e fa il tuo lavoro. In questa fabbrica noi operai/e di produzione non contiamo. Siamo solo un attrezzo di lavoro». Alle linee di montaggio ogni operaio ha uno spazio di lavoro ben delimitato. «È vietato andare in giro e gli operai non possono parlare tra di loro durante l’orario di lavoro». In un libretto con le norme di comportamento per i lavoratori, colme di citazioni militaresche e parafasciste di Terry Guo il boss, si legge: «I sottoposti devono assolutamente obbedire ai superiori».
Bagong! (Sciopero!)
Nel settimo capitolo, Jenny Chan, Pun Ngai, Mark Selden si occupano delle lotte nelle fabbriche Foxconn. Secondo il loro parere, «le lotte operaie in Cina sono aumentate a partire dalla metà degli anni Novanta e si sono evolute qualitativamente. Sono degne di nota soprattutto le richieste di aumenti salariali oltre il livello minimo locale» Dopo tutto il patimento descritto nei capitoli precedenti, questa parte del libro costituisce una sorta di sollievo.
Può esistere una coscienza di classe tra i giovani che lavorano alla Foxcoonn? E che tipo di lotte si sono svolte, con quali obiettivi? Il 3 gennaio 2012 – ad esempio – ci fu una delle proteste più clamorose: «più di centocinquanta lavoratori protestarono contro «la pessima distribuzione delle mansioni» mettevano in scena lo «show del salto dall’edificio» (tiao lou xiu), un modo di dire che mischia termini cinesi (tiao: saltare, lou: edificio) e termini inglesi: xiu che qui sta per show.
Essi minacciavano di buttarsi dall’edifico della fabbrica se i manager non risolvevano le questioni salariali. Negli ultimi due anni tante altre lotte, scioperi, rivendicazioni, hanno contraddistinto le fabbriche Foxconn. Proteste organizzate con passaparola, smartphone, applicazioni. E in alcuni casi, secondo gli autori del volume, avrebbero anche coinvolto il livello più basso della dirigenza, dimostranza la propria forza, benché la condizione dei lavoratori cinesi rimanga, da un punto di vista contrattuale (nonostante i recenti aumenti del salario), «debole».
La Cina altrove
Ora immaginatevi tutto questo, in Europa. È questo il salto della Foxconn: la sinizzazione del mondo del lavoro europeo (almeno nei paesi dove si è stabilita e di cui si sa molto poco, come Turchia, Russia, Ungheria). Nel capitolo Nono del volume Rutvica Andrijasevic e Devi Sacchetto, si occupano della Foxconn in Europa, in particolare in Repubblica Ceca, che come altri paesi dell’Europa orientale sta sviluppando un’importante industria elettronica. La Foxconn può in questo modo espandersi e produrre per il mercato occidentale utilizzando la più prestigiosa dicitura «Made in Eu».
Una prima constatazione: «La Foxconn, come le altre imprese straniere collocate nella Repubblica Ceca, ha potuto contare su una vera e propria “macchina statale” messa in campo per attrarre gli investimenti stranieri». Richiesta di soldi asiatici, chiudendo un occhio sui diritti dei lavoratori, con risultati negativi, per tutti. La Foxconn infatti ha finito per imporre salari medi inferiori a quelli precedenti, portando tutto il mercato a offrire stipendi al ribasso. Come in Cina, inoltre, la produzione è basata sulla «velocità d’esecuzione».
«Come in tutte le aziende di elettronica, mentre le mansioni svolte nei reparti produttivi sono spesso banalizzate, rimane fondamentale la velocità di esecuzione. L’azienda mira all’incremento della produttività: sebbene i salari siano calcolati su base oraria, alla manodopera vengono posti precisi obiettivi da raggiungere nell’arco del turno lavorativo. Capireparto e capilinea mettono sotto pressione i lavoratori per mantenere elevato il ritmo produttivo».
I turni sono di 12 ore, le condizioni di lavoro e le pressioni portano anche ad un elevato numero di incidenti e infortuni. E anche in Repubblica Ceca, per gli interinali – che costituiscono il 60% degli occupati – esistono i dormitori. Nelle conclusioni del capitolo, emerge il punto focale cui mira tutto il volume. Gli autori ritengono infatti si debba insistere nell’analisi della produzione globale della Foxconn.
I due mondi, quello cinese e quello europeo, infatti sono molto più vicini di quanto si possa pensare. Non si tratta solo di bassi salari, di tempo di lavoro, di pressioni, di disciplina. Si tratta infatti di capire come la Foxconn gestisca la sua forza lavoro globale. «Un approccio che mette in primo piano il ruolo del lavoro nell’organizzazione della produzione globale – concludono gli autori – potrebbe rendere visibili i collegamenti e le continuità delle condizioni di produzione in luoghi quali l’Europa e la Cina che altrimenti potrebbero apparire solo come peculiari e separate».
[Scritto per il manifesto]