Chi è il nuovo premio Nobel per la letteratura? Le origini rurali, l’esercito, la fame e la letteratura; la scoperta degli autori occidentali: Balzac, Calvino e Márquez su tutti. E infine la sua scrittura che unisce realismo magico alla tradizione della sua gente, quella della Cina rurale. China Files fa un ritratto di Mo Yan. “Fin da piccolo sono sempre stato un povero infelice, un disgraziato a cui le furbizie si ritorcono sempre contro. Persino i tentativi di ingraziarmi i maestri venivano presi come macchinazioni ai loro danni. Piú di una volta, mia madre mi aveva detto sospirando: “Figlio mio! Sei come il gufo che annuncia buone nuove, per quanto si forzi non gli crederanno mai!”
Così scrive Mo Yan in Cambiamenti (ed Nottempo), e lo scrive in prima persona. Non sappiamo quanto autobiografico ci sia in questo racconto che abbraccia più o meno quarant’anni di storia cinese, ma non fatichiamo a immaginarlo così.
Sappiamo che ogni sua opera è ambientate nelle sconosciute e maltrattate campagne cinesi, dove la vita contadina scorre lenta e difficile e dove Mo Yan è cresciuto. Lo scrittore cinese, classe 1955, è infatti originario del villaggio di Gaomi, nelle piane della Cina centrale della regione dello Shandong, lo scenario di molti suoi romanzi.
“Decisi di prendere carta e penna in mano quando un mio amico mi disse di conoscere uno scrittore che mangiava tre volte al giorno”, ha raccontato in un intervista di qualche anno fa a China Files. “Ci pensate? Tre pasti, mentre noi vedevamo la gente morire di fame”. Come per molti dei suoi coetanei è stata la fame a portarlo via dalle campagne e – storia comune a molti intellettuali cinesi – a farlo arruolare nell’esercito. “Fare il soldato era un sogno per noi ragazzi: buon cibo, una bella uniforme e un giorno libero alla settimana. Cose inimmaginabili nel mio villaggio”.
E così – incredibilmente – in caserma si è formato sui libri di Honoré de Balzac, Italo Calvino e Gabriel García Márquez. Quello che forse lo ha influenzato di più forse a giudicare dal realismo magico che pervade ogni suo scritto.
La letteratura infatti si è mischiata al substrato delle narrazioni popolari compagne delle lunghe sere di inverno, complici il fuoco e gli anziani del villaggio. Ed è proprio questa caratteristica che lo ha portato al Nobel per la letteratura 2012.
Si legge a chiare lettere nel comunicato dell’Accademia svedese delle Scienze, un premio meritato “per avere fuso realismo visionario, racconti popolari, storia e contemporaneità”. Niente di più vero. Le storie degli avi e le leggende popolari si sono mischiate alla sua esperienza personale di vita nella trasformazione economica e sociale più rapida che la storia ricordi, quella della Cina comunista.
Dalla resistenza ai giapponesi, alla Rivoluzione culturale. Mo Yan è uno scrittore prolifico che racconta tutto. Scrive di contadini per parlare di tutta la Cina, usa il passato per descrivere il presente e ha il pregio dei grandi narratori. Nelle sue storie i lettori possono trovare se stessi con tutti gli umani pregi e difetti e al tempo stesso la complicata società cinese.
Quella società che nella sua disperata necessità di affermarsi non ha guardato in faccia a nessuno. Per garantire una ciotola di riso a tutti ha cancellato una cultura che vanta quattromila anni di storia, ha trasformato i poveri in potenti, gli intellettuali in operai, i comunisti in capitalisti e sta lentamente distruggendo l’ambiente. Una società che dopo tutti questi sforzi rischia di tornare oggi, al punto di partenza.
Di tutto questo Mo Yan non parla direttamente. E i suoi romanzi non sono mai stati oggetto di censura, anzi. Una delle ragioni per cui sembrava impossibile che vincesse il Nobel è proprio questa: è troppo politicamente corretto. È stato uno degli autori coinvolti nell’apologetica trascrizione amanuense di uno dei più importanti discorsi del Grande Timoniere Mao Zedong, quello in cui si dettavano i canoni dell’arte e della letteratura di “propaganda”, i canoni che sarebbero stati per decenni le briglie degli intellettuali della neonata Repubblica popolare ovvero I dialoghi di Yan’an sull’arte e sulla letteratura.
E poi nel 2009 alla Fiera del libro di Francoforte, aveva rifiutato di prendere parte a una conferenza con alcuni scrittori dissidenti in esilio e di commentare la condanna al Nobel per la pace 2010 Liu Xiaobo. E aveva spiegato che “bisognerebbe tollerare quelli che rimangono nelle proprie stanze e usano la letteratura per dare voce alle loro opinioni“.
D’altronde non bisognerebbe stupirsi. Mo Yan è un nome d’arte, è lo pseudonimo di Guan Moye. Significa “senza parole”. Uno pseudonimo scelto per ricordare che nella storia della Cina sono stati decisamente troppi i momenti in cui una parola poteva costare molto cara. E oggi non è poi tanto diverso.
[Scritto per Pubblico; foto credits: dna.fr]