Percorro la via Xinxi in cerca di un ristorantino dove mangiare un piatto di rangpizi e due chadan (piatto freddo a base di ‘fettuccine’ di farina di grano, privato del glutine, condite con olio piccante, aceto affumicato e porro; chadan: uova sode bollite nel tè )
E’ il 2006 e intorno a me, case basse e palazzi rivestiti di piastrelle e insegne colorate dominano il paesaggio semi-urbano di Linxia, citta’-contea capoluogo dell’omonima Prefettura Autonoma Hui del Gansu, sita a sudovest di Lanzhou, capoluogo provinciale, da cui dista circa due ore di macchina.Undici anni dopo, data del mio ultimo soggiorno, Linxia è diventata una piccola metropoli, dove grattaceli e edifici ultramoderni si alternano a case in terra battuta, tra centinaia di cupole e spioventi smaltati sormontati dal crescente. Incastonata nella valle del fiume Daxia –tributario del Fiume Giallo– tra l’altopiano tibetano e quello del Loess, Linxia, copre un’area di circa 88.6 km².
Nota come ”Hezhou” (”la divisione amministrativa lungo il fiume”) fino al 1928, fu sin dall’antichità crocevia dei traffici commerciali che si snodavano lungo il corridoio dello Hexi, storico passaggio di merci e spezie, del commercio di tè e cavalli, del tratto meridionale dell’antica via della seta che collegava Samarcanda a Xi’an. Terra di scontri sanguinosi durante le rivolte anti-mancesi della seconda metà del XIX secolo, e quartier generale di alcuni membri dei potenti clan musulmani ”Ma” che dominarono il Nordovest del paese prima dell’avvento comunista, Linxia è conosciuta nelle cronache di viaggio e nelle guide turistiche come la ”Piccola Mecca cinese” (Zhongguo de xiao maijia), per esser uno dei maggiori centri islamici e luoghi sacri del Sunnismo hanafita cinese delle province nordoccidentali della Cina (Gansu, Ningxia, Qinghai e Xinjinag).
Su una popolazione totale di quasi 300.000 individui, la città è abitata per oltre il 50% da musulmani ”etnici” –quattro delle dieci minoranze di fede islamica identificate con la ”classificazione etnica” (minzu shibe) implementata in Cina dal Partito tra il 1953 ed il 1979– i sinofoni Hui (45.03%), i mongolofoni Dongxiang (5.01%) e Bonan e i turcofoni Salar (i due sommati, meno dell’ 1%.). A differenza dei contesti sociali come quello dello Xinjiang, dove le tensioni tra la maggioranza Han e i musulmani Uyguri e Kazaki assumono una connotazione marcatamente etnica, a la Piccola Mecca, è l’affiliazione religiosa più che lo status etnico (minzu shenfen), a differenziare i musulmani gli uni dagli altri, e a farli riconoscersi come ”comunità di credenti” rispetto alle altre minoranze –tibetani e Tu– che praticano il taoismo (21.8%), il buddismo (5.3%), il cristianesimo (0.5%),2 ma soprattutto rispetto alla ”grande massa” (dazhong) Han (48%), grande consumatrice di carne di maiale.
D’altro canto, è proprio lo status etnico a garantire ai musulmani locali il diritto a un parziale autogoverno (zizhi) in quanto minoranze numericamente importanti della Prefettura Autonoma Hui della Regione di Linxia (stabilita nel 1956), dove il Partito lascia un certo margine di autonomia amministrativa ai loro rappresentanti, secondo una ”diarchia” che vede sempre affiancato ad una amministratore hui un membro del PCC di nazionalità han. Proprio questa ricchezza etno-religiosa e culturale fa di Linxia un esempio ideale per analizzare il rapporto tra PCC e minoranze musulmane della ”frontiera” –sia geografica che immaginata– dove queste ultime sono ”maggioritarie” sia dal punto di vista culturale, sia (sovente) numerico rispetto al gruppo Han, nonché della narrazione del PCC di una Cina moderna, multietnica e ”armoniosa” nell’era della Nuova via della seta.
Sotto la presidenza di Xi Jinping (2012-), questo messaggio armonizzante è stato reso anche attraverso una progressiva turisticizzazione etnicizzante dello spazio pubblico, in particolare, nel quartiere turistico ”otto rioni e tredici vicoli”, ad uso e consumo tanto dei visitatori forestieri, quanto degli autoctoni, questi ultimi insieme fruitori e agenti della nuova rivoluzione del ”turismo culturale” cinese.
Nonostante i musulmani –soprattutto il gruppo più numeroso, gli hui– siano sparsi un po’ ovunque a Linxia, il divario spazio-culturale con i residenti han –seconda maggioranza locale, non musulmana– è palpabile. Benché gli Han siano clienti abituali dei ristoranti halal che predominano in città, e hui e han lavorino negli stessi uffici fianco a fianco– i matrimoni misti sono pressoché inesistenti (a meno di una conversione del coniuge all’Islam) così come le interazioni sociali dentro le rispettive pareti domestiche.
Anche la distribuzione della popolazione cittadina racconta questa distanza: gli han vivono soprattutto nei quartieri anticamente intra muros, che oggi ospitano centri commerciali, karaoke, caffè, bordelli e uffici governativi, mentre i musulmani si concentrano nella parte sudoccidentale della città, dove abbondano moschee, trattorie halal e piccole botteghe.
Conosciuta come Bafang, letteralmente ‘il quartiere degli otto fang” – perché sorta intorno a 8 (poi divenute 12) moschee-comunità (fang) nella Cina imperiale, la più antica delle quali data all’anno 1273– questa parte della città copre una superficie di appena 1.24 km². Fino alla seconda decade degli anni 2000, Bafang è rimasto un quartiere popolare molto povero e degradato, seppur pittoresco, con i suoi vicoli polverosi e labirintici, tra una moschea e l’altra, e i suoi siheyuan affacciati su cortili ornati con alberi da frutta e rose. A partire dal 2013, anno del lancio dell’iniziativa della Nuova via della seta, molta dell’architettura residenziale tradizionale di Linxia è stata rasa al suolo per far posto a palazzoni di 30 piani e più.
Negozi scintillanti con insegne trilingue –cinese, arabo e inglese– si affacciavano su impeccabili strade asfaltate su sfrecciavano potenti suv. Questa ”febbre” del restyling urbano dovuto all’aumento del reddito pro capite locale, ha colto anche molte moschee cittadine in una gara autofinanziata a chi avesse i minareti più svettanti, realizzati in una profusione di varianti dello stile ”mediorientaleggiante” molto in voga in Cina, che poco ritiene del tradizionale assetto ”islamo-tao-buddista-confuciano” ancora perfettamente adatto, invece, a rappresentare la simbologia mistico-esoterica dei monasteri Sufi locali. Nonostante tutto, allora, il cambiamento del paesaggio urbano non aveva intaccato i vicoli dell’antico borgo ”sacro” di Bafang, che si potevano ammirare dalle finestre dei grattaceli circostanti.
Le cose cambiarono con il lancio del ”piano quindicennale (2015-2030) per la città di Linxia e per le aree urbane della contea di Linxia”, che prevedeva una riforma strutturale e economica senza precedenti, per il rilancio dell’economia e del ”turismo culturale” (wenhua lüyou) lungo la cintura econimica della Nuova via della seta. Allora, il governo locale di Linxia diramò dei questionari tra le famiglie di Bafang – o meglio di quel nucleo centrale di 0,41 km2 ribattezato ”otto rioni e tredici vicoli (Bafang shisanxiang)”, corrispondente alla parte più antica del Bafang storico, i cui confini restano topograficamente imprecisati sin da quando il Partito negli anni ’50 riorganizzò l’assetto urbano per annientare il potere carismatico, economico e giuridico dei leader musulmani cui era subentrato.
Dopo un periodo di negoziazione con le 1.954 famiglie residenti, riluttanti al cambiamento perché allarmate dal rischio di demolizioni arbitrarie e forzate, nel 2016 si aprirono i lavori, per cui furono investiti 340 milioni di yuan (circa 46.260.000 euro). In questa nuova fase, il governo abbandonò la strategia del ”demolire per costruire ex novo”, preferendo restaurare nel rispetto della tradizione locale, secondo il motto, ”preservare l’antico”, ”restaurare l’antico”, ”creare l’antico” (cungu, fugu, chuanggu).
Il risultato finale è analogo a quello dell’antico quartiere ”tre rioni e sette vicoli” della città di Fuzhou, (Fujian, Cina meridionale): la sequenza architettonica lungo la quale s’incammina il turista è un percorso guidato ”metaspaziale” –nel tempo e nel luogo, cioè, depositari della memoria collettiva locale– distribuito in un circuito chiuso, secondo l’immagine del ”villaggio dentro la città” (chengzhong cun), lontano dal caos metropolitano eppure nel cuore della metropoli stessa. Abitazioni tradizionali, residenze storiche, aree museali, negozi, caffetterie e trattorie tipiche –costruiti secondo materiali e stilemi artistici locali– si susseguono mescolando cultura e consumismo.
Ognuno dei tredici vicoli che si diramano negli otto rioni presenta al visitatore un’esperienza diversa, da quella religiosa a quella culinaria, in una ”mise en scene” ad uso e consumo del turista, tipica della museificazione dello spazio urbano che mischia l’attività quotidiana dei residenti con il passato evocato dalle leggende esplicative affisse sui muri. Ma a differenza dei ”tre rioni e dei sette vicoli” di Fuzhou –dove importanti esponenti della storia cinese che vi risiedettero sono riprodotti in busti e statue bronzei commemorativi– la passeggiata degli ”otto rioni e sette vicoli” a Linxia abbonda di staue bronzee che immortalano anonimi avi dei contemporanei hui intenti a svolgere attività manifatturiere e mercantili, nonché di manichini in silicone a grandezza naturale indaffarati in attività domestiche, installati in sale espositive che riproducono gli interni delle dimore tradizionali.
Questa banalizzazione della cultura locale fonde indistintamente storia e presente dei musulmani etnici di Linxia, in una sorta di ”tassidermia” culturale che li rende al contempo agenti e oggetti delle politiche per lo sviluppo del turismo, nel molteplice ruolo di residenti, imprenditori, turisti, e copie inanimate di se stessi.
Viene da chiedersi quanto potenti saranno gli effetti stranianti di questa turisticizzazione etno-folklorica di Stato sull’autopercezione dei musulmani linxianensi, e più in generale, perché (e per chi) occorra ”creare la tradizione” (chuanggu), oltre a preservarla. Questi interrogativi sembrano più pressanti se si considera che ”otto rioni e tredici vicoli” si trova nel cuore di Bafang, a sua volta, centro pulsante della memoria e dell’identità collettiva della Piccola Mecca. Qui oggi, non solo lo spazio ”profano” dello svago ricreativo ma anche quello ”sacro” della moschea, è oggetto del processo di ”ritorno” alla tradizione cinese che marca un’inversione di tendenza rispetto al restyling mediorientaleggiante degli anni passati, percepito come un’ ”arabizzazione” incontrollata dei costumi locali che perturba l’armonia etnica e l’unità nazionale, rivelando una propensione verso modelli sociali ed politici he guardano in direzione della qibla anziché verso Pechino. Ancor prima che l’emergenza del Sars Covid-19 proibisse gli assembramenti nei luoghi di culto, dunque, la pratica religiosa dei musulmani di Linixia aveva già subito diverse restrizioni, soprattutto dopo il riferimento del primo ministro Li Keqiang durante l’Assemblea Nazionale sul Lavoro Religioso nel 2016, a Linxia come una delle aree esposte al rischio di estremismo islamico, accanto allo Xinjiang e al Ningxia.
Tuttavia, se fino a pochi mesi fa ci si era limitati a far togliere gli altoparlanti per lo adan e a restringere l’accesso dei giovani alle scuole coraniche, recentemente, la riqualificazione dello spazio urbano ha implicato anche la rimozione progressiva di cupole e minareti ”arabeggianti”, da sostituire con forme più consone all’architettura locale. La museificazione dello spazio pubblico in chiave etno-folklorica sta forse fagocitando lo spazio religioso e favorendo la censura della pratica rituale? Anche se una risposta a questo interrogativo sarebbe prematura, è bene tener a mente che la percezione delle politiche etno-religiose del PCC non è uniforme ma cambia a seconda della posizione sociale e culturale dei cittadini.
Se molti linxianensi non saranno contenti di vedere chiassosi avventori passeggiare accanto, o addirittura dentro, le loro moschee, d’altro canto, l’aumento dei turisti, ha creato nuovi posti di lavoro, nel commercio e nella ristorazione, togliendo molti da una condizione di povertà il cui tasso nel 2013 riguardava il 27.83% della popolazione. Tra il 2018 –anno in cui ”otto rioni e tredici vicoli” è stato promosso ad attrazione turistica 4A (sorta di 4 stelle su 5)– ed il 2019, il quartiere ha accolto oltre 4,8 milioni di turisti per un guadagno complessivo di oltre 390 milioni di yuan (oltre 50 milioni 300 mila euro). Inoltre, dal punto di vista del conflitto etnico tra hui e han, sovente alimentato dal pregiudizio degli internauti verso l’Islam, la museificazione della cultura tradizionale hui, contribuirà alla sua popolarizzazione positiva.
Di Francesca Rosati
[Pubblicato su il manifesto]