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Minacce contro le giornaliste cinesi

In Cina, Economia, Politica e Società by Alessandra Colarizi

Non è del tutto chiaro se gli stalker patriottici abbiano agito di loro spontanea volontà o se facciano parte di una campagna pilotata dall’alto. Ma l’intento delle minacce è infatti sempre lo stesso: “Mettere a tacere il punto di vista di queste donne e creare un deterrente alle critiche sulla Cina”.

Minacce di morte, insulti, e richieste di sesso mercenario. Negli scorsi undici mesi, la vita di Su Yutong è diventata un incubo. La giornalista, nata in Cina e residente in Germania dal 2010, non trova pace tra molestie reali e insulti virtuali: non solo si è vista suonare alla porta sconosciuti in cerca di sesso a pagamento. Presunti hacker hanno cercato di accedere ai suoi social media e ai suoi conti bancari. Su Telegram è stata minacciata con l’invio di ricevute contraffatte di sex toys e fotomontaggi che la ritraevano nuda. Le pressioni sono persino aumentate dopo la denuncia alla polizia.

Su non è l’unica reporter cinese residente all’estero ad aver subito attacchi sessisti. Vicky Xu, una giornalista naturalizzata australiana, è stata ripetutamente stalkerata online, definita una “traditrice”, una pedina dell’Occidente. Addirittura un “demone femminile” dai comportamenti “promiscui”. Sheng Xue, scrittrice fuggita dalla Cina dopo i fatti di piazza Tian’anmen, ha detto di aver subito molestie simili da quando vive in Canada, anche se le intimidazioni non sono costanti. Piuttosto coincidono con l’approssimarsi di date sensibili, come l’anniversario del massacro dell’89 e la festa della Repubblica (1 ottobre). 

Su, Xu, e Sheng hanno tre caratteristiche in comune: sono donne, sono di origine cinese, e scrivono di diritti umani. Xu, in particolare, si è dedicata approfinditamente alla questione degli uiguri e del lavoro forzato nel Xinjiang. Ai microfoni di Radio Free Asia, la ragazza ha definito le minacce subite “tortura psicologica”. Ma chi è il vero mandante? 

Non è del tutto chiaro se gli stalker patriottici abbiano agito di loro spontanea volontà o se facciano parte di una campagna pilotata dall’alto. Sulla questione ha indagato l’Australian Strategic Policy Institute (ASPI), think tank non-partisan fondato dal governo australiano. Secondo un rapporto pubblicato dall’istituto lo scorso giugno, le intimidazioni online hanno interessato, tra le altre, reporter di Wall Street Journal, Economist, New Yorker e New York Times. 

Lo studio rileva – se non in tutti almeno in alcuni casi – il coinvolgimento delle autorità cinesi. L’intento delle minacce è infatti sempre lo stesso: “Mettere a tacere il punto di vista di queste donne e creare un deterrente alle critiche sulla Cina”, spiega l’ASPI, secondo i quali dietro alle invettive contro le giornaliste comparse sul web ci sarebbe la mano di “Spamouflage”, una rete di spam operativa fin dal 2019 che i gestori di Twitter hanno associato al governo cinese. Gli argomenti discussi – rigorosamente con un taglio pro-Pechino – originariamente riguardavano soprattutto il movimento democratico di Hong Kong, il Xinjiang, e l’origine del COVID, ma in tempi più recenti è stato riscontrato un maggiore interesse per Taiwan e la guerra in Ucraina. 

I contenuti sono principalmente in cinese, sebbene alcuni siano in inglese o altre lingue. Twitter ha confermato di aver sospeso almeno 900 profili collegati al network. Per quanto, a giudicare dallo scarso engagement ottenuto dai post, l’impatto dell’operazione propagandistica sembra essere generalmente piuttosto limitato, alcuni tweet hanno ottenuto una certa risonanza: l’hashtag #TraitorJiayangFan, nome di una giornalista del New Yorker, ha totalizzato quasi 400 commenti. A gennaio è stato Google a lanciare l’allarme dopo aver riscontrato un’espansione dei bot filo-cinesi su Meta, Youtube, Blogger e AdSense. L’azienda ha provveduto a chiudere 100mila account sospetti. 

Se sui social la matrice governativa risulta sfumata, altrove il coinvolgimento delle autorità è più esplicito: lo dimostra l’accanimento contro Xu del Global Times, spin-off del People’s Daily, il quotidiano ufficiale del PCC, che nel 2021 ha accusato la ragazza di avere “scarsa morale”. Al tabloid fa capo il gruppo WeChat, Bu Yi Dao, che nell’ultimo anno si è distinto per aver più volte denigrato le collaboratrici asiatiche di testate quali il Nikkei Asia Review. 

Perché tanto accanimento verso le reporter di origini cinesi? In generale perché sono considerate più “fastidiose” dei corrispondenti stranieri: parlano mandarino, conoscono molto bene la storia del paese e hanno una rete di fonti locali in grado di reperire informazioni di prima mano. Sono quindi  più capaci dei giornalisti stranieri di “leggere le foglie del tè”, ovvero interpretare quanto succede in Cina, dove i media locali sono strettamente censurati. Quando poi hanno legami con paesi “ostili” sono doppiamente sgradite: Cheng Lei, giornalista con passaporto australiano, è stata arrestata nel 2020 con l’accusa di spionaggio.

E’ possibile inoltre intravedere una buona dose di sessismo. Negli ultimi anni la Repubblica popolare si è dotata di leggi ad hoc per difendere i diritti delle donne, ma la tradizione patriarcale confuciana della società cinese favorisce tutt’oggi comportamenti discriminatori. Da qui la natura molto personale degli insulti ricevuti dalle reporter, nonché l’allusione a comportamenti licenziosi che raramente vengono contestati ai colleghi maschi. 

Va detto che non è solo un problema cinese. Stando a un sondaggio realizzato congiuntamente dall’International Women’s Media Foundation e Trollbusters, un gruppo che monitora le molestie online, a livello mondiale quasi il 70% delle giornaliste donne ha subito qualche forma di abuso in relazione al proprio lavoro.

Di Alessandra Colarizi

[Pubblicato su Gariwo]