I miliardari cinesi sarebbero, secondo Forbes, 115. Il più ricco è Liang Wengen, capo della Sany Heavy Industry Co. prima nel business delle armi, ora nelle costruzioni. Al secondo posto, Li Yanhong, boss di Baidu, il motore di ricerca numero uno in Cina, un mercato di 480 milioni di navigatori. Quello del miliardario in Cina però è un mestiere pericoloso: dal 2003 ne sarebbero morti ben 65, più della metà. E la ragioni sono diverse.
Hanno l’imbarazzo della scelta fin dal mattino: uscire con una Lamborghini, una Maserati o una Ferrari. Vivono in ville lussuose, disegnate da interior designer europei. Quando vanno in Italia a comprare mobili, per arredare chilometri quadrati di proprietà, ordinano centinaia di migliaia di euro di acquisti. Richiedono visite private alla cappella Sistina, al Louvre, vanno a farsi operazioni estetiche in Svizzera, controlli anti cancro in Giappone, hanno carte di credito illimitate, ogni tipo di esclusività, storcono il naso di fronte ad alberghi storici, troppo vecchi, e prediligono lo sfarzo spazioso. Spesso sono venuti fuori dal nulla, una questione di guanxi, la parola cinese per indicare network, fitta trama di relazioni confidenziali, il contatto giusto al vertice, i ganci. Che significa anche ricevere la soffiata corretta su una nuova area residenziale, il tempismo perfetto per lanciare una start-up tecnologica e raccogliere finanziamenti consistenti. Hanno tanti soldi in cash fumante, in Cina non esiste altro, quando non addirittura in buste gialle, quelle classiche da inghippo, i miliardari cinesi. C’è solo un problema: dal 2003 ne muore uno ogni 40 giorni.
Intanto, quanti sono. Nel 2011 prendiamo come riferimento un grande classico ormai citato a memoria dagli esperti di settore cinese. Secondo Forbes nel 2011 la rich list sotto al cielo conferma la crescita della categoria, ma il numero complessivo si assesta dietro agli Usa (anche se contassimo quelli di Hong Kong che Washington lascia fuori). Secondo Forbes i miliardari cinesi sarebbero 115. Il numero uno è Liang Wengen, capo della Sany Heavy Industry Co. con un patrimonio netto disponibile di 9,3 miliardi di dollari. Già a capo di un’azienda che produceva armi, Liang Wengen si è poi spostato nel settore delle costruzioni, un business ancora propizio, a tratti straboccante nel coagulo economico cinese. Chi lo conosce dice che lui, nominato numero uno cinese anche dalla Hurun Rich List 2011, a quelli di Hurun, quasi non voleva dare i propri dati. Non per paura della sindrome dei miliardari, di cui diremo a breve, ma perché il cinquantacinquenne più ricco della Cina, come tutti i potenti cinesi, ha la prontezza di una tigre nello schiacciare l’acceleratore, ma preferisce viaggiare a fari spenti, perché ogni mossa sbagliata in Cina diventa un pericoloso punto di non ritorno.
La posizione numero uno conferma come l’edilizia, la corsa alla costruzione, sia un investimento sicuro in Cina: a Tianjin sta per nascere una new town – nell’attesa hanno costruito uno stadio in un anno e mezzo e autostrade – a Pechino è in gestazione un aeroporto che straccerà ogni record. Nella piccola, 5 milioni di abitanti, Hangzhou stanno mettendo in piedi la nuova linea metropolitana, per non parlare dei cantieri aperti ovunque. Niente di nuovo.
Il secondo posto di Forbes, invece, conferma un altro settore in forte crescita e ubriaco di rumor, tanto che c’è chi giura che sia una bolla destinata a naufragare: l’internet cinese. Non male per la rete più censurata al mondo. Controllata, eppure macina soldi, in un mercato di 480 milioni di navigatori (il primo al mondo).
Il secondo più ricco della Cina, infatti, è una vecchia conoscenza delle scene digitali cinesi, ovvero Li Yanhong, aka Robin Li, boss di Baidu, il motore di ricerca – e non solo – numero uno in Cina, il peggiore incubo dei “buoni” di Google, che hanno dovuto fare una campagna mondiale in favore della libertà di espressione per ovviare alle scarse quote di mercato ottenute a cospetto del Dragone (un’operazione pagata molto cara in Cina, specie dopo il fin troppo esplicito appoggio governativo ad opera di speech in giro per il mondo della Clinton). Il patrimonio netto disponibile di Robin Li sarebbe di 9,2 miliardi di dollari.
Il creatore di Baidu (fondato in un albergo a tre stelle di Pechino, come richiede l’agiografia nazionale del colosso cinese) ha una storia molto simile a tanti suoi coetanei. Nato nel 1968, ha studiato negli Usa, ha smanettato su algoritmi. Poi, al contrario di altri, ha trovato il finanziamento giusto, 1,2 milioni di dollari dalla Integrity Partners and Peninsula Capital e ha creato Baidu. Nel 2000 altra fiducia, sotto forma di nuovo investimento: Draper Fisher Jurvetson e la IDG Technology Venture. Il capitale sociale cresce: nel 2005 Baidu sbarca al Nasdaq.
Secondo il 2011 China Private Wealth Study di China Merchants Bank and Bain & Co. i ricchi cinesi sarebbero prevalentemente in Guangdong, a Shanghai, a Beijing, nel Zhejiang e nel Jiangsu. La trama della loro crescita si muoverebbe su nuove traiettorie, portandoli ad un cambiamento, ad una maturità: ormai – scrive il rapporto – sono divenuti “esperti di wealth management”. L’indicazione finale del documento di China Merchant Bank infatti, indica una strada ben precisa: “le banche private che riconosceranno questo cambiamento e adegueranno le loro strategie e i modelli di business di conseguenza, saranno meglio posizionate per guadagnare quote in questo mercato sempre più prezioso”.
Eppure molti cinesi, ricchi, hanno fatto sapere di preferire l’anonimato. I cinesi e il loro rapporto con il denaro potrebbero valere trattati di antropologia e psicologia sociale, ma l’improvvisa voglia di privacy tra i miliardari (considerando che lo show off, il mostrarsi, è uno degli sport più praticati in Cina) non si annida nei reconditi motivi che animano la gelosia dei propri patrimoni o nella smania e necessità di non farsi troppo notare dal Partito (che di solito è molto responsabile nella nascita o meno di un miliardario). Il fatto è che in Cina sono girate alcune statistiche che hanno impressionato i miliardari, dando vita ad alcuni fenomeni particolari.
Il China Daily a luglio di quest’anno ha riportato i dati di una ricerca effettuata da un istituto cinese, secondo il quale dal 2003 sarebbero morti ben 65 miliardari. Le statistiche indicano le cause delle morti: 15 sono stati assassinati, 17 si sono suicidati, sette sono morti per incidenti vari, 14 sono stati giustiziati, 19 sono morti per malattie. Non possono dormire sonni tranquilli, i ricchi cinesi, se a questi dati aggiungiamo che nelle ultime proteste popolari la massa di persone in una cittadina del sud, anziché recarsi come spesso accade verso il più vicino posto di polizia, ha preso invece di mira il quartiere dei “ricchi”. Un rigurgito classista che appare ancora sotterraneo, ma che corrisponde ad una differenza sempre più ampia tra chi possiede tanto e chi non possiede niente in Cina. Soprattutto a causa della quindicina di morti ammazzati, è nato quindi un nuovo business, che consiste in scuole per bodyguard di gente ricca. C’è chi si arrangia e chi invece fa sul serio.
A fine agosto il Global Times, quotidiano in lingua inglese, ha pubblicato un articolo ripreso anche dal serioso e ufficiale Quotidiano del Popolo, in cui si racconta la storia della Genghis Security Advisor, un’agenzia che prepara i bodyguard ad hoc per i miliardari cinesi. Il boss dell’azienda confessa la bontà del business, sottolineando la sua collaborazione per campi di addestramento anche con aziende israeliane. A differenza degli israeliani però, specifica al quotidiano, i bodyguard cinesi non posso usare le armi.
Il secondo fenomeno, più legato invece a motivazioni politico-economiche, sta dando vita al tentativo continuo di molti ricchi cinesi, di portare fuori dal paese il proprio bottino attraverso programmi di investimento all’estero. Secondo un documento China Merchant Bank, il 27% dei cinesi con 15 milioni di dollari in investable asset è già emigrato e il 47% starebbe pensando di farlo. I dati sarebbero confermati dall’unità del Tesoro americano che monitora i flussi di soldi illegali, ha aggiunto Forbes.
[Scritto per LINKiesta, fotocredits: http://laowaiblog.com/the-new-china/]