Il sottosegretario allo Sviluppo Economico Ivan Scalfarotto è stato a Pechino per la quarta volta e ha partecipato a un «incontro di sistema» in cui si cerca di serrare i ranghi della comunità d’affari italiana. È l’occasione per (ri)fare il punto su vizi e virtù della nostra macchina produttiva. A Pechino, periodicamente, si fa il punto sullo stato – o status – dell’Italia in Cina. Ultimamente, l’occasione per farlo è sempre più spesso la presenza del sottosegretario allo Sviluppo Economico, Ivan Scalfarotto, che lo scorso week-end è stato qui per la quarta volta e – così ha promesso alla stampa durante l’incontro nella nuova sede dell’Istituto per il Commercio Estero – già programma il quinto viaggio.
La Cina è sempre più imprescindibile come mercato di sbocco dei nostri prodotti, si sa, ma dalla notte dei tempi scontiamo un ritardo rispetto a tutti gli altri. Il vino? Parla francese; l’olio d’oliva? Habla español. E se non più in là di un anno or sono le orecchie dello scrivente sentirono la ministra della Salute Lorenzin affermare che il tentativo cinese di creare un sistema sanitario nazionale è per l’Italia un’occasione imperdibile – trasferimento di tecnologia, di «best practises», di competenze – quelle stesse orecchie si sono adesso mestamente ammosciate nell’apprendere che no, anche in quest’ambito ci sono i britannici che sono arrivati prima di noi. Perfida Albione: hanno inventato un marchio onnicomprensivo delle eccellenze di casa loro – GREAT – e sono riusciti a piazzare la mercanzia.
Ecco, perché noi non lo facciamo?
Per rispondere a questa e ad altre domande, da tre anni a questa parte l’ambasciata d’Italia a Pechino ha lanciato un «incontro di sistema» che nel famoso albergo Kempinsky a nord di Pechino dove si tenne l’Apec del 2014 – quello a forma di sole nascente – riunisce istituzioni, imprese, università. Si ascolta, si discute, si cerca di fare squadra. La presenza del sottosegretario è garanzia che a Roma e dintorni il messaggio arrivi e in tutta sincerità pare che l’Italia ce la metta tutta.
Per esempio, i fondi destinati alla promozione del Paese in Cina saranno quadruplicati: da circa 5 milioni e circa 20 milioni di euro. C’è abbastanza consenso nel ritenere che i nostri prodotti siano buoni come, se non migliori di, quelli francesi (la nostra invisa pietra di paragone dai tempi della testata di Zidane e anche prima), tedeschi, britannici, spagnoli. Ma abbiamo un deficit comunicativo. Cioè, ci sono quei marchi che ormai viaggiano da soli e che non è necessario spiegare ai cinesi: l’alta moda, le auto sportive. Ma quell’universo brulicante di eccellenze italiane che non fanno «brand», che non sono la Ferrari o Gucci, come lo si fa conoscere a un nuovo ceto medio che sull’ostentazione basa il proprio status, addirittura la propria ragion d’essere al mondo?
Ho appreso con interesse che esiste una sigla per definire questo segmento: BBF, cioè «bello e ben fatto». Si colloca immediatamente al di sotto del lusso – dove i francesi comandano – e lì siamo noi a farla da padrone. In basso, ci sono i prodotti di scarsa qualità – cioè il made in China – un po’ più su il cosiddetto «fast», appannaggio delle grandi catene come H&M o Ikea. E sopra, ecco il BBF, cioè l’Italia. Centocinquanta milioni di cinesi del ceto medio, con redditi oltre i 35mila dollari l’anno, sono lì ad aspettarlo. Forse.
Un amico mi ha mostrato il suo portafoglio made in Italy, con il brand scritto in piccolo, all’interno. Lui dice che è il non plus ultra tra «chi sa», io manco ero al corrente della sua esistenza. Ecco, immaginatevi i potenziali clienti cinesi, che vogliono la «V» di Versace anche stampata in fronte: come gli vendi il portafoglio «bello-ben-fatto-ma-sconosciuto»? E non si tratta solo di beni di consumo, anzi, ci sono quelli strumentali da promuovere: perché una turbina deve essere tedesca e non italiana?
Qui sta, in gran parte, il problema dell’Italia in Cina. È la nostra antropologia, la nostra bellezza ma anche il nostro limite. Dobbiamo trasmettere centinaia di anni di sapienza locale, emersa dall’artigianato, dalla cura del dettaglio, a chi è passato nell’arco di una generazione dall’abito maoista all’iPhone tempestato di perle, purché si veda tantissimo che è un iPhone e si veda tantissimo che sono perle. Bella scommessa, difficile, rischiosa.
Infine, passando a un argomento più politico, la risposta di Ivan Scalfarotto a una domanda sulla «stabilità» come elemento necessario per rapportarsi ai cinesi mi ha colpito particolarmente e la riporto integralmente: «La stabilità conta non solo in Cina, conta dappertutto, il fatto che noi abbiamo avuto 64 governi in 70 anni conta, la riforma costituzionale aveva anche il compito di assicurare la stabilità dei governi. La politica è fatta anche di rapporti personali, il fatto che ogni volta c’è una faccia italiana nuova che gira comporta l’onere di stabilire rapporti personali nuovi, mentre gli altri si conoscono già. Devo dire però che con questo ultimo cambio di governo, torniamo a Pechino con lo stesso ministro dello Sviluppo Economico, lo stesso sottosegretario al Commercio Internazionale e con un Primo ministro che era il precedente ministro degli Esteri, molto ben conosciuto qui a Pechino. Quindi credo che non sia un problema».
Dunque, è vero che la riforma costituzionale dello scorso novembre serviva a rafforzare l’esecutivo, così come è vero che l’esercizio della democrazia, che può far saltare i governi (anche se il voto referendario non implicava necessariamente quell’esito ed è stato l’ex premier Renzi a far tutto da solo), è considerato un limite alla competizione globale. Al di là delle vicende italiane, in questo si misura forse la portata della Cina e della sua irruzione sulla scena internazionale. Stabilità, sempre e comunque stabilità.