E’ ufficiale. Il capo dell’Interpol Meng Hongwei, sparito negli scorsi giorni dopo essere partito per la Cina, è stato trattenuto dalle autorità cinesi con l’accusa di corruzione. Lo ha annunciato lunedì il ministero della Sicurezza Pubblica (di cui Meng è viceministro), chiarendo le affermazioni con cui, poco prima della mezzanotte di domenica, la potentissima agenzia anticorruzione, la National Supervisory Commission, aveva fatto riferimento a generiche “gravi violazioni della legge dello Stato”. L’Organizzazione internazionale con base a Lione ha ricevuto le dimissioni del funzionario con “effetto immediato” nella serata di domenica.
Fornendo i primi dettagli del caso, un comunicato ufficiale pubblicato sul sito del dicastero definisce l’inchiesta sulle tangenti e le sospette violazioni della legge “molto tempestiva, assolutamente corretta e piuttosto saggia.” “Non esistono privilegi né eccezioni di fronte alla giustizia” chiosa il ministero, aggiungendo che Meng sconta le conseguenze di “aver voluto fare le cose a modo suo.” Le forze di polizia provvederanno ad istituire una task force per perseguire i suoi alleati politici.
La conferma dell’arresto arriva al termine della “golden week”, uno dei periodi vacanzieri più lunghi nella Repubblica popolare, e a circa un giorno dalla richiesta formale di chiarimenti da parte dell’Interpol. Meng si era volatilizzato nel nulla lo scorso 25 settembre dopo aver lasciato Lione alla volta della Cina. Da allora, le sorti dell’alto funzionario erano diventate motivo di apprensione per la famiglia, residente in Francia e al momento sotto la protezione delle autorità locali. L’ultimo messaggio recapitato dalla moglie – corredato dall’emoji di un coltello – faceva riferimento a un’imminente telefonata mai più ricevuta.
Non è inusuale che Pechino faccia sparire alti dirigenti per accertarne l’integrità politica e morale. Da quando il presidente Xi Jinping ha assunto la guida del paese nel 2012, più di un milione di funzionari è stato sottoposto a qualche forma di sanzione, tanto che la prigione dell’elite comunista, la Qincheng, risulta ormai affetta da sovraffollamento. Ma le diramazioni internazionali del caso di Meng creano un nuovo allarmante precedente, gettando ombre sulle ambizioni del gigante asiatico sullo scacchiere globale. Può un paese con il debole per le detenzioni extragiudiziali pretendere di riformare la governance globale?
Da anni Pechino si batte per una maggiore rappresentanza dei paesi emergenti negli istituti internazionali e la nomina di Meng ai vertici dell’Interpol nel 2016 era stata interpretata tanto una vittoria cinese quanto una sconfitta per la difesa dei diritti umani. Su richiesta del governo comunista, nell’aprile 2015 l’organizzazione con base a Lione ha pubblicato una lista di 100 ricercati all’estero per corruzione, termine che oltre la Muraglia spesso funge da paravento per lotte di potere e purghe politiche. Il caso di Meng non fa eccezione.
Dal suo arrivo in Francia, infatti, il 64enne aveva continuato a mantenere parallelamente la carica (assunta nel 2004) di viceministro del Ministero della Sicurezza pubblica, l’agenzia governativa preposta all’azione di vigilanza in territorio cinese nota per i frequenti abusi e la scarsa trasparenza. Questo lo aveva portato a collaborare in passato con l’ex zar della sicurezza Zhou Yongkang, condannato tre anni fa all’ergastolo con le accuse di corruzione, abuso di potere e rivelazione di segreti di Stato. Secondo indiscrezioni mai confermate, l’alto funzionario avrebbe altresì tramato per cambiare l’esito della successione al potere culminata durante il XVIII Congresso del Partito con la nomina di Xi Jinping.
Mentre il comunicato ufficiale non fornisce una collocazione temporale dei crimini commessi da Meng, il ministero è stato molto chiaro nel collegare il suo arresto alla necessità di “eliminare risolutamente la perniciosa influenza di Zhou Yongkang.” Proprio nella mattinata di lunedì, arringando il comitato di Partito interno al dicastero, il ministro della Sicurezza Pubblica Zhao Kezhi aveva espresso “massimo supporto” nei confronti delle indagini, promettendo “assoluta lealtà politica” alla leadership e a Xi.
D’altronde, come spiegano ai microfoni del South China Morning Post alcuni analisti, un normale caso di corruzione non avrebbe richiesto un intervento tanto spericolato. “La politica estera cinese deve innanzitutto servire gli interessi del Partito comunista,” chiarisce Steve Tsang direttore del China Institute presso la SOAS di Londra, “Pertanto, mentre l’immagine della Cina nel mondo e il suo avanzamento all’interno delle organizzazioni internazionali sono importanti per il governo cinese, rimangono comunque questioni secondarie rispetto alle considerazioni del Partito.”
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.