Il triste epilogo del Pilastro della Vergogna era già stato preannunciato a ottobre, quando la Hong Kong University aveva intimato all’organizzazione democratica di rimuovere la statua entro il 13 dello stesso mese.
Dopo aver preso di mira attivisti, esponenti dell’opposizione e gruppi sociali, il governo di Hong Kong ha individuato un altro ramo del dissenso da colpire: le università. Gli atenei dell’ex colonia britannica sono sempre stati i luoghi in cui si coltivava il pensiero critico, offrendo a studenti e docenti lo spazio per deliberare apertamente su questioni politiche e morali, anche controverse, e per esaminare iniziative e leggi approvate dal governo locale. Ma ciò è stato possibile fino all’introduzione della legge sulla sicurezza nazionale. La norma ha infatti comportato una stretta negli atenei dell’ex colonia britannica anche sui programmi di studio e sulle attività, al fine di sradicare le voci dell’opposizione.
L’ultima dimostrazione di forza è arrivata nella notte tra il 22 e il 23 dicembre nel campus dell’Università di Hong Kong, uno dei teatri delle proteste del 2019, con la rimozione del ‘Pilastro della Vergogna’ (Pillar Of Shame in inglese, ndr), l’opera dell’artista danese Jens Galschiøt che commemora le vittime del massacro di piazza Tiananmen del 1989. Nel buio della notte, la statua alta 8 metri e pesante due tonnellate che raffigura 50 volti angosciati e corpi torturati accatastati l’uno sull’altro, è stata smantellata dopo 24 anni di permanenza.
Già dal 1997, anno del ritorno di Hong Kong alla Cina, la scultura era stata ceduta in prestito all’organizzazione ‘Hong Kong Alliance in Support of Patriotic Democratic’ che per anni ha organizzato a Victoria Park la veglia di commemorazione del massacro del 4 giugno, prima della scure del governo locale che ha portato all’arresto dei tre leader e allo scioglimento del gruppo lo scorso 25 settembre.
Il triste epilogo del Pilastro della Vergogna era già stato preannunciato a ottobre, quando la Hong Kong University aveva intimato all’organizzazione democratica di rimuovere la statua entro il 13 dello stesso mese. La richiesta – avanzata durante due tifoni di livello T8 – ha causato una controversia che ha visto il rappresentante legale dell’università, Mayer Brown, ritirarsi dal caso a causa delle pressioni internazionali. Ma nella diatriba l’unico a non essere stato ascoltato è l’autore dell’opera, che a più riprese ha rimarcato di essere l’unico proprietario della statua.
Nel comunicato diffuso ieri, l’ateneo ha difeso la sua decisione chiarendo che “nessuna formazione politica ha mai ottenuto l’approvazione per esporre la scultura all’interno” dei suoi spazi, e dicendosi inoltre preoccupata “per i rischi alla sicurezza posti dalla fragile statua”. Ma soprattutto, il consiglio dell’Università ha aggiunto che gli ultimi pareri legali hanno evidenziato come “la continua esposizione della statua avrebbe comportato rischi legali per l’Università in base all’Ordinanza sui crimini emanata sotto il governo coloniale di Hong Kong”.
Per l’Università la rimozione della statua è stato quindi un atto necessario. Ma ora l’ateneo rischia di essere trascinato in un contenzioso legale, dal momento che l’artista svedese, che si è detto totalmente scioccato dalle circostanze, è pronto ad avviare una richiesta di risarcimento e di restituzione dell’opera.
L’operazione di smantellamento, avvenuta con totale riserbo, è stata finalizzata proprio nel periodo in cui il campus si svuota per le festività. E segna la rimozione dell’ultimo monumento commemorativo del massacro di Tiananmen ancora esposto al pubblico di Hong Kong.
Il Pilastro della Vergogna infatti ha un valore simbolico molto forte. Per Galschioet, i corpi simboleggiano la svalutazione dell’individuo e la scultura esprime il dolore e la disperazione per quanto accaduto. Adesso l’artista danese vuole che la scultura sia esposta altrove, forse di fronte all’ambasciata cinese a Washington, così come in Norvegia, Canada e Taiwan. Luoghi che fanno strizzare l’occhio a Pechino.
Ma la Cina va avanti per la sua strada e non si ferma di fronte alle critiche. Il Partito Comunista Cinese in più di trent’anni ha lavorato duramente per cancellare il ricordo della repressione di piazza Tiananmen dalla storia ‘ufficiale’. E adesso può considerarla una missione compiuta. A Hong Kong un altro simbolo del massacro del 4 giugno 1989 è stato cancellato in quello che si presenta come l’ennesimo affronto all’identità della città.
Di Serena Console
[Pubblicato su il manifesto]Sanseverese, classe 1989. Giornalista e videomaker. Si è laureata in Lingua e Cultura orientale (cinese e giapponese) all’Orientale di Napoli e poi si è avvicinata al giornalismo. Attualmente collabora con diverse testate italiane.