Memento russo. La Russia rappresenta il simbolo di tutto ciò che la Repubblica Popolare Cinese non vuole diventare: il simulacro di un impero disciolto, scomposto dal suo interno da quella che il mondo conosce come perestrojka e che Deng Xiaoping definì “liberalizzazione borghese”.
“Ho l’impressione che siamo sempre completamente aperti l’uno con l’altro. Siamo in grado di andare d’accordo ed è facile avere un dialogo insieme. Siamo buoni amici”. 22 marzo 2013, Cremlino. Sono alcune delle prime, significative, parole di Xi Jinping al cospetto di Vladimir Putin. Il “marito di Peng Liyuan” è da poco diventato presidente. In quelle ore è appena cominciata la sua prima visita ufficiale all’estero nella veste di capo dello stato. La meta è appunto la Russia, dove era già stato negli anni precedenti. Da erede (più o meno) designato di Hu Jintao, aveva già avuto modo di avviare un rapporto col presidente russo. Già nelle ore precedenti a quel viaggio, Xi sosteneva che Cina e Russia sono “importanti partner strategici” che parlano “un linguaggio comune”.
Da capire che cosa voglia comunicare quel linguaggio. La Russia rappresenta il simbolo di tutto ciò che la Repubblica Popolare Cinese non vuole diventare: il simulacro di un impero disciolto, scomposto dal suo interno da quella che il mondo conosce come perestrojka e che Deng Xiaoping definì “liberalizzazione borghese”. Un errore da non ripetere per non fare la fine dell’Unione Sovietica. Ricordati che (non) devi morire.
Durante la guerra fredda, a Mao Zedong andava stretto il ruolo di fratello minore dell’Urss, sponda (o stampella) della seconda potenza in competizione con la prima. Dal disallineamento sinosovietico in avanti, Pechino non ha mai smesso di osservare quanto accadeva a Mosca. Il senso di inferiorità è diventato voglia di rivalsa, poi inquietudine. Infine senso di superiorità. Agli occhi del Partito comunista cinese l’Urss è crollata a terra come un dinosauro a causa della sua incapacità a rinnovarsi senza rinnovare. Adattare il suo messaggio retorico senza modificare il suo sistema politico, sfruttare potenziali problemi facendoli diventare opportunità non solo per evitare l’indebolimento del partito, ma addirittura per rafforzarlo.
L’esempio sovietico ha influito in maniera considerevole sulla traiettoria del Pcc post Tian’anmen, in modi che si fanno sentire ancora oggi, in piena campagna di rettificazione preambolo dell’atto terzo dell’era Xi. Pechino ha stilato una lista di errori da non ripetere per non fare la fine dell’Urss e ora, al di là delle dichiarazioni ufficiali, vede la Russia come uno zoppicante prodotto di quegli errori. Un prodotto utile, ma del quale la Cina non si fida completamente. Perché le debolezze russe potrebbero riflettersi nelle sue debolezze. Perché le contraddizioni russe potrebbero evidenziare le sue contraddizioni. Perché se la forma diventasse sostanza la tattica rischierebbe di rivelarsi bluff.
Ecco perché, rispetto ad altri rapporti ben più sotterranei, la Cina ostenta il suo rapporto con la Russia. Se nel 2014 le sanzioni occidentali post Crimea avevano avvicinato Mosca a Pechino, la gemmazione della guerra commerciale in contesa geopolitica ha avvicinato Pechino a Mosca. Passi fatti in maniera pesante, apposta per essere sentiti. Gesti compiuti sotto la luce dei riflettori, apposta per essere visti. Parole ripetute a voce alta, apposta per essere udite. E allora, negli scorsi mesi ecco il passaggio congiunto delle due flotte navali nello stretto di Tsugaru che divide Honshu, il corpo principale dell’arcipelago giapponese, e Hokkaido, l’isola più vicina al territorio continentale russo. Una lingua di mare che separa il mar del Giappone e l’oceano Pacifico già utilizzata in passato da unità navali straniere, ma mai in maniera congiunta da componenti di due diverse flotte militari. Il transito non ha violato le acque territoriali giapponesi, che qui si estendono per sole 3 miglia nautiche invece delle tradizionali 12. Una scelta compiuta da Tokyo dopo la Seconda Guerra Mondiale, per consentire agli Stati Uniti di trasportare armi nucleari lungo lo stretto senza violare l’impegno giapponese alla non proliferazione. Risposta ad Aukus e segnale al Giappone, che dall’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca sta progressivamente abbandonando i tradizionali toni felpati per assumere una postura più assertiva nei confronti di Pechino.
E allora ecco i test su larga scala nella regione autonoma cinese dello Ningxia, con il coinvolgimento di oltre diecimila truppe terrestri e forze aeree. Oppure i ripetuti avvertimenti dell’alleanza anti SWIFT, volta a creare una piattaforma finanziaria sinorussa in grado di porre al riparo dalle sanzioni statunitensi e occidentali. O ancora: le rispettive dichiarazioni di sostegno da parte del governo ciinese sulle posizioni russe sul Kazakistan e sulle “rivoluzioni colorate”, dall’altra parte del governo russo sulle rivendicazioni cinesi su Taiwan. OTTIENI IL NOSTRO MINI EBOOK PER CONTINUARE A LEGGERE
Di Lorenzo Lamperti
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.