Dal commercio alla tecnologia, dai media alle organizzazioni internazionali, dalla sanità al vaccino. E poi da Hong Kong a Taiwan, dallo Xinjiang al Tibet. Nel già ricco, ricchissimo, carniere delle contese aperte tra le due principali potenze mondiali si aggiunge l’ennesimo capitolo: il Mar Cinese Meridionale. Non che prima non ne facesse parte, ma ora ha improvvisamente scavalcato qualche posizione nella classifica dei temi più caldi nei rapporti sempre più burrascosi tra Stati Uniti e Cina.
Tutto nasce dalla dichiarazione di martedì del segretario di stato Mike Pompeo, l’uomo se non più odiato certamente più bersagliato dai media di stato cinesi. Dichiarazione nella quale si definiscono gli Usa “campioni di un libero Indo-Pacifico” e soprattutto in cui Washington definisce esplicitamente illegali la maggior parte delle rivendicazioni territoriali di Pechino sulle isole contese e schierandosi con cinque paesi coinvolti nelle dispute: Vietnam, Filippine, Indonesia, Malaysia e Brunei.
Prima di salire sul ring sinoamericano proviamo nell’arduo compito di riassumere quali sono queste contese, avvertendo che per capirci qualcosa serve per forza di cose essere accompagnati da una cartina dell’area. La Cina è la più coinvolta, perché sul tema segue la sua politica dei “nove punti”, rifacendosi a una mappa del 1947 a cura della marina del Kuomintang, il partito nazionalista cinese. Quando nel 1949 fu fondata la Repubblica Popolare Cinese e il Kuomintang si ritirò a Taiwan (Repubblica di Cina), la mappa dei fu ereditata dal Partito Comunista. In realtà, la mappa del 1947 conteneva 11 punti, ma nei primi anni Cinquanta Pechino deciso di toglierne due corrispondenti al golfo del Tonchino, racchiuso tra la parte nordorientale del Vietnam e l’isola cinese di Hainan.
Nonostante questo, la linea dei “nove punti” comprende la grande maggioranza delle acque del Mar Cinese Meridionale e per questo si scontra con le rivendicazioni di tutti gli altri attori coinvolti. Le rivendicazioni cinesi si scontrano col Vietnam nelle acque limitrofe al paese vicino; con Malaysia, Brunei e Filippine per i confini marittimi settentrionali dell’immensa isola malese del Borneo; con l’Indonesia in corrispondenza delle isole di Natuna; con le Filippine per le coste dell’arcipelago di Palawan e di Luzon, l’isola principale di Manila.
E poi ci sono isole, isolotti, scogli o rocce subacquee sparsi in vari altri arcipelaghi: isole Paracelso, isole Spratly, isole Pratas, Macclesfield Bank, l’atollo di Scarborough. Queste sono le aree dove il numero di attori in campo si moltiplica, viste le rivendicazioni contemporanee di Cina, Vietnam, Malaysia, Filippine e Brunei.
C’è poi anche un’ultima disputa, l’unica in cui la Cina non è coinvolta, e che riguarda le isole di Sabah. Le rivendicazioni in questo caso sono di Indonesia, Malaysia e Filippine. Senza contare il ruolo di Taiwan, che mantiene le originarie rivendicazioni della Repubblica di Cina. E, a dirla tutta, controlla anche militarmente l’isola più grande delle Spratly, Taiping, lontanissima dalle coste di Formosa.
Un dedalo di rivendicazioni incrociate che sembra insolubile e che nel corso dei decenni si è risolto in un fragile equilibrio che ha consentito di mantenere aperte le rotte commerciali senza incorrere in eccessivi rischi militari, a parte lo scontro navale a metà degli anni Settanta con cui la marina cinese allontanò quella vietnamita dalle Paracelso.
Negli anni non sono comunque mancate le tensioni diplomatiche. Nel 2016 la Corte permanente arbitrale dell’Aja ha sancito, in base alla convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, che la Cina avrebbe violato i diritti di sovranità delle Filippine occupando l’atollo di Scarborough. Una sentenza non vincolante e che Pechino ha rifiutato apertamente.
Ma è proprio a questa sentenza che Pompeo si riferisce nella sua dichiarazione per giustificare la presa di posizione americana da un punto di vista legale. Sarebbe stato infatti più complicato fare riferimento diretto alla convenzione delle Nazioni Unite del 1982, visto che gli Stati Uniti l’hanno firmata ma il loro senato non l’ha mai ratificata.
Il “ministro degli Esteri” di Trump sostiene che l’obiettivo è “preservare pace e stabilità” e rispondere “alla minaccia in arrivo dalla Cina. Pechino usa l’intimidazione per minare i diritti di sovranità degli stati del sud est asiatico”. Al di là del discorso nel merito, però, l’impressione è anche ancora una volta Washington usi un tema reale in modo strumentale per cercare di compattare i ranghi in un ipotetico asse anti cinese. Ma, come è già accaduto su Hong Kong e in parte con Taiwan con il ritiro dall’Organizzazione mondiale della sanità (che colpisce le speranze di Taipei di rientrare nell’assemblea grazie all’aiuto di Washington), queste leve sono passibili di essere improvvisamente abbandonate. Vero che la mossa sul Mar Cinese Meridionale lascia presagire, insieme ad altre mosse, l’intenzione americana di riposizionarsi nell’Asia Pacifico e tornare a riempire alcuni vuoti che si sono creati negli ultimi anni. Ma con le elezioni presidenziali alle porte e alcuni precedenti anche in altre regioni (leggasi Siria e Medio Oriente) potrebbe far pensare a qualche capitale che del big brother è bene fidarsi ma non troppo.
Per questo è fondamentale capire come si muoveranno i paesi coinvolti direttamente nelle dispute. Decideranno di seguire il suono della tromba trumpiano oppure proseguiranno nel tentativo di mantenere un sempre più difficile equilibrio tra i due giganti che li tirano per la giacchetta? Domanda alla quale può essere più semplice rispondere per potenze regionali di primo rilievo, come Giappone, India e Australia, che hanno tutte problemi diplomatici con Pechino dopo l’esplosione della pandemia da coronavirus. Tokyo ha lanciato il piano China Exit per incentivare le sue imprese ad abbandonare la Cina, è stata molto vocale a sostegno di Taiwan e delle proteste di Hong Kong e ha risposto alle manovre intorno alle isole contese Senkaku/Diaoyu. Nuova Delhi ha lanciato una guerra commerciale (con poche chance di successo, al momento) contro Pechino dopo gli scontri lungo il confine conteso che hanno portato alla morte di venti militari indiani. Canberra è stata tra i primi a chiedere un’indagine internazionale sulla pandemia e Pechino ha reagito con un ban su alcuni prodotti australiani. Anche se in realtà gli ultimi dati dicono che l’export australiano in Cina tiene. Tutti e tre i paesi hanno siglato o stanno siglando alcuni accordi in materia di cooperazione difensiva. Ma, nonostante questo, una vera e propria alleanza strategica (così come era pensata nelle originarie intenzioni del Quad, il Quadrilateral Security Dialogue dell’Indo Pacifico) ancora non c’è.
Ancora più difficile, di conseguenza, dare una risposta comune per potenze medie o piccole come quelle dei paesi del sud est. Ma qualcosa si muove. Facciamo una rapida ricognizione: il Vietnam, come abbiamo già raccontato varie volte su Affaritaliani, è il paese più assertivo tra quelli del gruppo Asean (Associazione delle nazioni del sud est asiatico). Rinfrancato da una gestione (o meglio, prevenzione) ottimale del Covid, ha invitato le sue imbarcazioni a non rispettare il divieto di pesca imposto dalla Cina nell’area delle isole Paracelso. E, anche grazie alla presidenza di turno Asean, è riuscito a far firmare una dichiarazione congiunta al summit delle scorse settimane in cui si fa riferimento alla convenzione Onu del 1982.
Risultato non scontato, in una galassia di paesi che sul tema resta frammentato anche per non pregiudicare i fondamentali rapporti commerciali con Pechino. Vero che Cambogia (con il primo ministro Hun Sen andato a Pechino nelle prime fasi dell’epidemia per mostrare sostegno) e Laos sono ormai da tempo dentro gli ingranaggi di Pechino, ma Hanoi sta assumendo un ruolo sempre più principale all’interno del gruppo Asean.
Le Filippine sono sempre state molto combattive in passato, almeno fino all’arrivo di Rodrigo Duterte che ha ricalibrato la politica estera di Manila avvicinandosi a Pechino. Ma nelle scorse settimane c’è stata una nuova, silenziosa, svolta. Prima l’accordo bilaterale su tutte le dispute in essere con il Vietnam, poi la conferma dell’accordo difensivo con gli Usa che Duterte aveva annunciato di voler stracciare nei mesi precedenti.
Indonesia e Malaysia sono solitamente più defilate e meno aggressive, anche per una politica estera meno estroversa rispetto a Giacarta e Hanoi. Proprio dalla capitale indonesiana, il presidente cinese Xi Jinping annunciò l’avvio del progetto della Via della Seta marittima nel 2013, quando parlò (primo leader straniero a farlo) di fronte al parlamento indonesiano. Ma di recente il presidente Joko Widodo si è fatto vedere alle Natuna e il recente caso di un marinaio indonesiano torturato e morto a bordo di una nave cinese può rischiare di esacerbare i rapporti.
Anche qui, la creazione di un vero e proprio fronte anti cinese non è per nulla scontato. Gli altri paesi dell’area osservano. Proprio nelle scorse ore Xi ha avuto una conversazione con Lee Hsien Loong, primo ministro di Singapore, che ha sempre mantenuto una linea neutrale sui molti spinosi dossier regionali. Lee è reduce dalle elezioni generali di venerdì scorso e la telefonata di Xi era di congratulazioni per la vittoria alle urne. Difficile però che non si sia parlato anche del Mar Cinese Meridionale e del posizionamento della città-stato nella contesa Washington-Pechino. Una contesa che ora naviga sempre più in acque insidiose.
[Pubblicato su Affaritaliani]Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.