Non solo la Cina non possiede diritti storici nel Mar cinese meridionale. Ma ha anche violato la sovranità delle Filippine, conducendo esplorazioni in prossimità del Reed Bank, all’interno della zona economica esclusiva (zee) di Manila. Seppur ampiamente preannunciato, il verdetto della Corte permanente di arbitrato dell’Aja (12 luglio) non ha mancato di adirare Pechino che ancora prima dell’ufficializzazione della sentenza aveva annunciato, in segno di avvertimento, la buona riuscita di test di atterraggio in due nuovi aeroporti nell’arcipelago delle Spratly, conteso con Vietnam, Filippine, Malesia, Taiwan e Brunei. Altrettanto sospetto il tempismo con cui il ministero della Difesa cinese ha rivelato la commissione di un nuovo cacciatorpediniere lanciamissili ad una base navale sull’isola-provincia di Hainan, nel profondo sud cinese. In un breve comunicato giunto a ridosso del verdetto, il dicastero si è impegnato a «salvaguardare fermamente la sovranità nazionale, la sicurezza, i diritti e gli interessi marittimi, a sostenere la pace e la stabilità, e ad affrontare ogni tipo di sfida e minaccia». In base alla minaccia avvertite, il governo cinese si avvarrà della possibilità di istituire una zona di difesa aerea, come già avvenuto nel Mar cinese orientale.
Secondo il tribunale, Pechino avrebbe violato non meno di 14 disposizioni dell’UNCLOS (Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare) , 6 del COLREG (Regolamento internazionale per prevenire gli abbordi in mare) e una regola generale del diritto internazionale. Volendo sintetizzare le 500 pagine di documentazione, i punti salienti sono sostanzialmente cinque:
1) La «linea dei nove tratti» (che abbraccia quasi il 90 per cento del Mar cinese meridionale) e i «diritti storici» reclamati dalla Repubblica popolare non hanno alcun fondamento giuridico.
2) Le Spratly, rivendicate dalla Cina, non possono, né individualmente né collettivamente, generare una zona economica esclusiva.
3) La Cina ha violato la sovranità delle Filippine, ha interferito illegalmente con i diritti di pesca tradizionali delle Filippine, e ha creato gravi rischi di collisione, impegnandosi in pratiche di navigazione non sicure e ostruendo le navi filippine.
4) La Cina ha violato gli obblighi di preservare e proteggere l’ambiente marino, conservare le riserve ittiche, e prevenire la raccolta su larga scala delle specie in via di estinzione. Gli esperti hanno rilevato gravi danni alle scogliere.
5) Le attività di costruzione portate avanti dalla Cina sulle isole artificiali violano gli obblighi durante il procedimento di risoluzione delle controversie e non conferiscono alcun diritto legale aggiuntivo alle formazioni marine stesse.
Poco dopo l’annuncio dell’Aja, una lettera di condanna firmata da oltre 20mila persone, e redatta da giovani studiosi cinesi di stanza nei Paesi Bassi, è stata inoltrata alla divisione per gli Affari e la Legge del Mare presso l’Ufficio legale delle Nazioni Unite, oltre che ad altri organi giudiziari internazionali. «Le vere dispute nell’arbitrato sono quelle che riguardano il territorio e le delimitazioni marittime», recita il testo, «per quanto riguarda la giurisdizione, l’Unclos non affronta le dispute territoriali e le dispute di delimitazione sono state escluse dalle procedure obbligatorie secondo quanto dichiarato dalla Cina ai sensi dell’articolo 298». Nel 2014, la Cina ha rifiutato la giurisdizione della corte sostenendo che non abbia competenza sui casi che riguardano la sovranità, eccezione sollevata in passato anche da altri Paesi. Secondo quanto affermato dai media di Stato, sarebbero oltre 70 le nazioni a sostenere la posizione cinese in merito alla sovranità nelle acque contese.
La questione è stata ripresa anche dal leader cinese Xi Jinping durante un incontro con il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e il capo della Commissione europea Jean-Claude Junker a Pechino per presenziare all’annuale China-EU Summit. «Insistiamo fermamente a mantenere la stabilità nel Mar cinese meridionale, e a negoziare direttamente con gli Stati coinvolti per trovare una risoluzione pacifica alle controversie, nel rispetto della storia e del diritto internazionale». Tanto Tusk quanto il Dipartimento di Stato americano hanno espresso l’augurio che entrambe le parti rispettino i loro obblighi. In tutta risposta il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha definito l’arbitrato «una farsa politica sostenuta con il pretesto legale» e manipolata da forze straniere, vago riferimento all’indigesta interferenza di Washington al fianco degli alleati asiatici nelle acque agitate. Negli scorsi giorni la stampa cinese aveva messo in dubbio la neutralità dei cinque giudici incaricati di valutare il caso quando, nel 2013 Manila si rivolse alla corte dell’Aja per mettere fine alle angherie subite dai pescatori filippini presso lo Scarborough Shoal; a suscitare diffidenza soprattutto il ruolo di Shunji Yanai, esponente della destra giapponese, incaricato di formare il collegio arbitrale.
Anche il popolo del web non ha mancato di dire la sua. In un bagno di nazionalismo, l’hashtag «arbitrato Mar cinese meridionale» (#南海仲裁案) è diventato trending topic nella serata di martedì, con 360 milioni di visualizzazioni attorno alle 21.00 ora di Pechino. Mentre il Global Times, noto per i suoi editoriali piccati, ha totalizzato 21mila commenti sul suo account Weibo dopo aver lanciato una campagna di protesta contro la decisione dell’Aja. C’è chi ha invitato i propri connazionali a boicottare i prodotti filippini, chi a dichiarare guerra al vicino asiatico, chi invece si è spinto su toni tranchant. «Come osi! Un venditore di banane che ruba il Mar cinese meridionale al proprio padre!» ironizza una vignetta xenofoba circolata sul Twitter cinese. «Bu jieshou, bu chengren, bu zhixing» («non accettare, non ammettere, non eseguire») è il meme rimbalzato dalla stampa ufficiale ai social network. Sia i post contrari alla vulgata ufficiale sia quelli ultra-nazionalisti sono finiti inesorabilmente sotto la scure dei censori.
Ma a considerarsi «parte lesa» non è soltanto Pechino. A sorpresa, il tribunale internazionale ha infatti negato a Taiping/Itu Aba (l’unica formazione naturale del Mar cinese controllata da Taiwan) lo status di isola, pestando i piedi a Taipei che ambiva a vedere formalmente riconosciuti i propri diritti di sfruttamento entro le 200 miglia nautiche, estensione massima della zee – stando all’UNCLOS la zee non viene applicata a scogli e isolotti disabitati. Allineandosi alla posizione cinese, l’ufficio di presidenza taiwanese ha fatto sapere che l’arbitrato non è da considerarsi giuridicamente vincolante. D’altraparte, non potrebbe essere altrimenti considerato che la famigerata «linea dei nove tratti» si fa risalire ad una mappa stilata negli anni ’40 dal governo nazionalista, prima della fuga oltre lo Stretto. Nella mattinata di mercoledì, una nave da guerra taiwnaese ha preso il largo verso Taiping per «difendere la sovranità e il territorio di Taiwan».