Nel 1981 il partito comunista cinese giudicò l’eredità di Mao Zedong. Fu stabilito che il Grande Timoniere per il 70 percento avesse fatto cose buone e per il restante 30 percento cose meno buone. Pesarono sul giudizio il grande balzo in avanti e la rivoluzione culturale, il fatto che a capo del partito ci fosse Deng Xiaoping e che fossero appena cominciate le riforme e le aperture che avrebbero cambiato per sempre il paese.
Nonostante il peso di un 30 percento negativo, il pensiero di Mao Zedong rimase tra i principi fondamentali del partito comunista e della Costituzione cinese. Ancora oggi è così, così come il volto di Mao è ancora sulla facciata della Città Proibita a vegliare sulla Tiananmen. Il giudizio che solitamente si può scorgere sui media italiani riguardo Mao Zedong è ben più tranchant, in negativo, risultato di una storiografia che per lungo tempo ha visto l’egemonia di studi occidentali e americani tesi a bocciare qualsiasi validità dei percorsi comunisti, come se le storture valessero per bocciare un intero sistema di pensiero.
Di conseguenza e come risultato di questo «clima» culturale, sui media mainstream si tende a ignorare il peso storico di Mao relativamente a quello che è stato e soprattutto a quello che poteva essere. Si passa sopra, dunque, alla portata storica universale che ebbe il momento fondante della Cina di oggi, ovvero la rivoluzione comunista. Afterlives of chinese communism (Verso Books, pp. 416, euro 23, la versione ditigale è scaricabile gratuitamente) curato da Ivan Franceschini, Nicholas Loubere e Christian Sorace, prova a riportare le cose in ordine: si tratta di una collazione di oltre 50 voci, redatte da intellettuali cinesi e sinologi con approcci differenti (storico, sociologico, culturale), a partire però da alcuni presupposti sanciti dai curatori del volume.
Si tratta di premesse necessarie per inquadrare tema e libro, perché siamo di fronte a un’elaborazione che non vuole ingannare a proposito di una supposta oggettività: siamo dinanzi a un libro «di parte», finalmente, un libro che indaga il comunismo cinese e Mao Zedong dalla prospettiva di chi ne ha scorto le caratteristiche, le applicazioni e le prospettive rivoluzionarie, per vederle poi svanire nella Cina odierna. Ma non per questo – e nonostante le tragedie che alcune scelte hanno comportato – non va nascosta la potenza di quelle premesse. Il comunismo cinese ha segnato una fase storica mondiale, è stato rivoluzionario e ha provato a cambiare davvero il corso della storia cinese e non solo. La sfida lanciata dai comunisti cinesi e da Mao, va dunque riletta non solo per quello che è stato, ma anche per quello che poteva essere e per quello che ancora può dare a una prospettiva di cambiamento radicale della società capitalistica; per questo rimane un universo da esplorare, per trovare l’origine di quanto può cambiare l’attuale stato di cose presente.
Come anticipano i curatori, del resto, «nel volume ogni autore affronta la questione del comunismo cinese dalla propria prospettiva e nel proprio linguaggio. Anche i redattori del volume discutono costantemente tra loro sull’eredità dell’era di Mao. Pensiamo che questo sia uno dei punti di forza del libro. Ma questo volume è costruito sulla base di parametri di inclusione ed esclusione. Come redattori, siamo interessati a prospettive critiche sull’eredità maoista che lo prendano sul serio come progetto rivoluzionario (in corsivo nell’originale ndr). Questo criterio lascia ampio spazio al disaccordo, ma esclude prospettive sul maoismo sprezzanti e ideologicamente radicate nella mentalità della guerra fredda che si tramutano in obiettive scienze sociali».
Su questo secondo aspetto, l’intervento di Fabio Lanza spiega la traiettoria compiuta dagli studi al riguardo identificando alcuni momenti di svolta capaci di superare un approccio occidentale (basato per lo più sullo studio delle élite e dei funzionari) o – potremmo aggiungere – giustificatorio delle «caratteristiche cinesi» all’analisi della rivoluzione comunista. Quanto alla ragione del perché ancora oggi Mao sia così rilevante nella società e nella politica cinese, l’intervento di Gloria Davies alla voce «Immortality» ne rende un esempio. Davies ricorda «i modi in cui le sue parole hanno continuato a godere di una presenza dominante nel discorso pubblico in Cina. Spesso sono ciò che le persone cercano quando vogliono esprimere il loro desiderio di una politica che sia in grado di trasformare la realtà. Quando nel maggio 1989 gli studenti di piazza Tiananmen organizzarono uno sciopero della fame, pubblicarono un manifesto che iniziò con le prime parole di un saggio del 1919 di Mao: «Questo paese è il nostro paese, questo popolo il nostro popolo: se non facciamo sentire la nostra voce, chi lo farà? Se non interveniamo, chi lo farà?»
Il volume è uno strumento storico indispensabile ma fornisce anche importanti chiavi interpretative sull’attualità, grazie ad un altro intendimento esplicitato dai curatori quando affermano di rifiutare la limitazione di discutere di Mao stabilendo se si è a favore o contro. Riprendendo l’analisi anti-anti-comunista di Kristen R Ghodsee e Scott Sehon, secondo i quali si può essere anti-anti-comunista anche senza essere comunisti, nessuno «richiede di sostenere la violenza sfrenata dei regimi comunisti del ventesimo secolo». In realtà è la sinistra che «dovrebbe essere la più critica di questi tradimenti».
Se infatti «si può parlare in modo rispettoso dei principi della Costituzione degli Stati Uniti con la storia di schiavitù e genocidio che ha alle sue origini, si dovrebbe anche essere in grado di affrontare Mao Zedong come un modello dinamico per l’organizzazione politica».
In conclusione i curatori ricordano un passo del filosofo Alfred North Whitehead: «Un sentimento porta su se stesso le cicatrici della sua nascita; ricorda come emozione soggettiva la sua lotta per l’esistenza; conserva l’impressione di quello che avrebbe potuto essere, ma non è. L’attuale non può essere ridotto a una mera questione fattuale e sganciata dal suo potenziale. In un’interpretazione comunista, queste potenzialità sono una libera eredità del pensiero per chiunque voglia raccoglierle e utilizzarle».
Lo fa Mobo Gao alla voce «Collectivism» quando ricorda – come fa anche Arrighi nel suo «Adam Smith a Pechino» – il peso che le Comuni hanno avuto anche nella successiva epoca delle riforme, potendo contare su una classe di lavoratori istruita nelle mansioni, alfabetizzata, in grado di autoregolamentarsi e soprattutto economica in termini di costi. Non di meno lo dimostra Alessandro Russo alla voce «Lotta di classe», esplorando il concetto di dittatura del proletariato («Quando, nei primi mesi della rivoluzione culturale, Mao disse alle Guardie rosse che tutti dovevano “preoccuparsi degli affari dello stato” espresse perfettamente lo spirito della dittatura del proletariato») e sottolineando come la volontà maoista di costituire un nuovo modello di fabbrica differente da quelle capitalista – ad esempio – abbia portato a una riflessione sul partito come «avanguardia di classe» che ancora oggi costituisce un vanto del Pcc, nonostante le tante operazione estetiche tentate dai leader, dalle «tre rappresentanze» di Jiang Zemin, al «sogno cinese» di Xi Jinping.
Un’altra voce interessante, specie per il suo legame con l’attualità, è quella relativa a due parole importanti anche nella Cina odierna, «Xiaokang e datong». Abbiamo tradotto «xiaokang» come «moderata prosperità» (mentre «datong» rappresenta un passaggio successivo, una sorta di mondo ideale cui dovrebbe tendere l’umanità), ma secondo Craig A. Smith è stato compiuto un errore: «xiaokang» indica infatti «una società ancora imperfetta» benché avviata ad assicurare a tutta la popolazione un certo grado di benessere. Xi Jinping ha usato l’espressione più volte nei suoi discorsi pubblici e mentre in Occidente «xiaokang» è stato tradotto con «moderata prosperità», in realtà «per gli oratori cinesi il concetto ha trasmesso messaggi fondamentali sul ruolo e sull’autorità del Partito nel ventunesimo secolo», in quanto riecheggiante citazioni di Mao (riprese poi da Deng) tese a interpretare per il partito comunista un’espressione di origine confuciana. Infine, tra le tante parole analizzate nel volume (una vera miniera per gli studiosi) all’interno del quale non mancano contributi di studiosi italiani, oltre a quelli citati ci sono anche Claudia Pozzana e Laura De Giorgio, oltre al curatore Ivan Franceschini, ci pare interessante l’intervento di Luigi Tomba a proposito di «Large and communitarian».
Si tratta di una parte del libro nel quale si indaga la continuità nell’ambito del controllo del territorio che unisce la Cina maoista a quella contemporanea, ambito molto dibattuto di recente: «I due tentativi più significativi di rimodellare la Cina – le Comuni e l’attuale spinta all’urbanizzazione – sono indubbiamente diversi per ideologia e forma, ma sono in definitiva progetti territoriali di uno Stato costantemente ossessionato dal pattugliamento dei mutevoli confini geografici e umani nel rapporto tra città e campagna. Attraverso di loro, lo Stato – certamente Stati diversi con priorità diverse in diversi momenti storici – sta cercando di controllare blocchi crescenti del vasto territorio del paese e imporre una razionalità a livello nazionale».
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.