In un saggio del 2001, intitolato La mia disillusione, Perry Link- studioso della Cina, intellettuale e interprete di tutto ciò che è cinese per l’audience statunitense- fece autocritica per le sue iniziali «grandi speranze» per il Partito comunista cinese (Pcc): «Come mi sbagliai a prendere il ‘socialismo’ di Mao Zedong prima facie». Link rievocò il suo primo viaggio in Cina nel 1973: «Avevo imparato durante il mio dottorato che, dopo la campagna del 1958 contro i ‘quattro flagelli” non c’erano più mosche in Cina…Quando ne vidi una posarsi su un bianco tavolo di marmo a Suzhou, la fotografai».
Dopo una serie di simili e sempre più sconcertanti scoperte, la lezione finale nella disillusione di Link ebbe luogo nel 1989, quando Link e l’amico Fang Lizhi ebbero uno spiacevole incontro con la polizia cinese. Link fu scioccato quando lesse un resoconto officiale dell’evento pubblicato dall’agenzia di stampa Xinhua che «raccontava, nel dettaglio, una storia completamente inventata, che si discostava in larga misura da ciò che avevo visto con i miei occhi». Perry Link è rappresentativo di una generazione di analisti che «condivise una certa ortodossia di sinistra…imparò l’Internazionale», e credette che il comunismo cinese «fosse il futuro».
Poi, nel corso degli anni ’70, quando fu loro finalmente concessa la tanto attesa possibilità di gettare uno sguardo sulla «vera Cina», ciò che videro non corrispondeva alla propaganda a cui non solo avevano creduto ma che avevano anche attivamente diffuso. Molti di loro vissero quella realizzazione come un trauma individuale, un tradimento personale, una umiliazione.
«Quante mazzate in testa mi servirono» scrisse Link, per vedere «come funzionavano le cose nella Cina comunista». Tanto più furono disillusi dalla scoperta che «il Pcc fosse capace di mentire apertamente» e che la retorica del partito potesse essere falsificata dai fatti, tanto più determinati diventarono ad espiare il loro passati peccati falsificando quante più rivendicazioni maoiste possibile e cercando di screditare chiunque fosse rimasto fedele alle più favorevoli impressioni del passato.
Come Perry Link, molti dei principali studiosi nel campo della storia, letteratura, e politica cinese nell’accademia statunitense presero parte a quelle prime, fatidiche delegazioni nella Cina maoista. In Europa, dove nei lunghi anni ’60 il maoismo fu una teoria politica molto più influente, la disillusione e la conseguente inversione ideologica furono, se possibile, ancora più marcati. Sono passati cinquant’anni e il doloroso ricordo di essere stati abbindolati dalla retorica del Pcc ha plasmato le domande, le metodologie, e le sensibilità degli studi sulla Repubblica popolare cinese (Rpc), più di ogni altra struttura disciplinaria o teorica.
Nell’era post-Disillusione, e sotto la tutela dei «traditi», generazioni di studenti hanno imparato che la prima regola degli studi sulla Rpc è: mai credere sulla parola ai comunisti cinesi. Negli ultimi 20 anni, è emersa una nuova generazione di storici che, a differenza dei loro predecessori, hanno avuto accesso ad una cornucopia di fonti sull’era maoista che sembrava essere inesauribile: archivi statali e regionali, gente comune e ufficiali governativi ansiosi di raccontare le loro storie, documenti secretati, gettati via da danwei e uffici amministrativi; tutto è stato raccolto e messo in vendita, prima in mercati dell’usato e ora online, dando vita alla sotto-disciplina della spazzaturologia (garbology).
Gli storici della Rpc sono forse gli unici studiosi che possono, individualmente, acquistare un intero archivio. Negli ultimi quindici anni, la cosiddetta «nuova storia della Rpc» ha prodotto una serie di opere di eccezionale qualità e ha fornito prospettive davvero innovative sull’era maoista. Purtroppo, l’entusiasmo iniziale è recentemente scemato, visto che gli archivi cinesi stanno diventando sempre meno accessibili e le fonti «spazzatura» si stanno rapidamente esaurendo.
E, forse proprio perché siamo ora meno sommersi da fonti, appare evidente che, a dispetto delle aperture degli ultimi anni, il modo in cui scriviamo la storia della Rpc (negli Usa e in Europa) è ancora in larga parte definito dall’epistemologia della post-Disillusione. Come per la precedente generazione di studiosi della Cina-ma senza la scusa di un tradimento personale e politico- la motivazione che guida la storia della Rpc è ancora trovare«realtà» che smentiscano la propaganda del Pcc.
Secondo questa metodologia, la Cina appare principalmente come un luogo da perlustrare in cerca di frammenti di fattualità, che l’esperto ricercatore può dissotterrare al fine di ricostruire le «verità» dell’esperienza quotidiana, le quali, a loro volta, si suppone possano fratturare e smentire il discorso del maoismo. In questa nuova forma di sinologia, le complessità della lingua del Partito devono essere apprese perfettamente, cosicché lo storico possa abilmente rintracciare le menzogne e separare la propaganda dai dettagli rivelatori: il discorso del Pcc può essere letto solo «contropelo», per rivelare la realtà nascosto dietro la retorica.
Uno dei problemi fondamentali di questa metodologia è che questa pulsione a falsificare ha portato gli storici ad essere molto più sospettosi delle positive dichiarazioni di successi del maoismo e non sufficientemente sospettosi delle affermazioni negative che gettano ombra sul progetto maoista anche quando entrambe provengono proprio dall’archivio del Partito-Stato.
Infatti, gran parte di quel che sappiamo della vita durante il maoismo viene proprio da fonti prodotte dallo stato, a tutti i livelli. Spinti dall’urgenza post-Disillusione di ripudiare la «retorica» con la «realtà», estrapoliamo queste storie negative per smentire il discorso del Partito, ma perdiamo il contesto nel quale furono presentate e nel quale emersero.
E ciò ci porta non solo ad una scarsa comprensione del discorso del Partito (e del Partito stesso), ma anche a postulare una separazione impossibile fra la vita della gente comune- sottratta alla narrativa statale- e lo stato maoista. La soluzione non è, comunque, di abbandonare tutte le fonti prodotte dal Partito-stato o di relegare la retorica del Pcc ad un passato da dimenticare. Sosteniamo qui l’esatto contrario: dobbiamo prendere più seriamente le descrizioni che lo stesso stato ha prodotto sul proprio governare, dobbiamo ricostruire l’intero apparato concettuale all’interno del quale gli agenti dello stato scrivevano, e dobbiamo ascoltarli quando ci dicono cosa cercavano di fare e perché credevano di stare fallendo in quel proposito. E ciò si applica sia agli anni di Mao che al presente di Xi Jinping.
Concludiamo con un altro esempio di Disillusione: Jonathan Mirsky, ex-studioso di cose cinesi ed redattore per l’Asia Orientale del Times di Londra, partecipò al secondo viaggio in Cina organizzato dal Commitee of Concerned Asian Scholars nel 1972. Mirsky ricorda di aver visitato la casa della «famiglia di un operaio» che aveva stanze ben arredate e «dipinte a colori vivaci» più «una radio, un televisore» e «molte biciclette nuove di zecca» naturalmente senza alcun lucchetto, perché il furto di biciclette era cosa inaudita nella Cina comunista. Il giorno successivo, però, Mirsky ebbe l’occasione di visitare una casa differente- «squallida, mal dipinta», senza televisione, e con «una sola bicicletta di seconda mano, chiusa a chiave».
Quando il residente della seconda casa spiegò a Mirsky che la prima era appunto «un appartamento da esibizione» e che, in realtà, in Cina «c’erano molti ladri» Mirsky passò da «fan di Mao a controrivoluzionario in 48 ore».
Ovviamente, l’informatore di Mirsky diceva la verità: la Rpc non riuscì mai ad eliminare completamente i piccoli furti. Tuttavia, i furti diminuirono drasticamente rispetto ai livelli pre-1949, e nei primi anni cinquanta, molti cinesi vivevano in appartamenti piuttosto confortevoli. Nessuna di queste verità rende l’altra falsa. La storia degli ultimi 70 anni, e specialmente dell’era Maoista, è una storia di tragedie personali e di enormi trasformazioni, di vite individuali e progetti statali, di quadri incapaci e retorica trionfalista: gli uni non possono essere capiti senza gli altri, perché gli uni non esistevano senza gli altri. Come scrisse Ernest Hemingway: «Non c’è una cosa sola che è vera. È tutto vero».
Di Aminda Smith e Fabio Lanza
[Pubblicato su il manifesto]