Trovare la bibbia dei maker sugli scaffali di una libreria di Shenzhen, metropoli della Cina meridionale, induce a porsi qualche domanda sul peso di questo movimento nell’ex Impero di mezzo. Tanto più se è completamente tradotta in cinese. Reportage da Shenzhen, dove sta esplondendo la cultura Do It Yourself.
Shenzhen – Makers (Rizzoli, 2013) descrive una nuova possibile rivoluzione industriale scatenata dall’invenzione della stampante 3D. Sarà così che chi ha in mente nuovi prodotti potrà produrre e distribuire da solo, capovolgendo il mondo della produzione industriale. Si tratta di sfruttare le principali tendenze nate ed esplose in rete: peer production, open source, crowdsourcing e crowdfunding. L’autore Chris Anderson prevede un movimento inarrestabile di “artigiani digitali” che soppianterà la produzione di massa. Anche in Cina, dove si è organizzata la terza fiera dei maker (Shenzhen, 6 e 7 aprile).
“Shenzhen è l’Hollywood dei maker. Qui, a un costo ridicolo, puoi trovare qualsiasi componente elettronico”. Così Momi Han ci introduce nel mondo di Seeeds, un capannone industriale alla periferia nordovest della città. Saliamo su un un montacarichi e ci troviamo in un open space che ospita una cinquantina di postazioni. Il disordine è totale e chi lavora non sembra fare troppa attenzione a noi. Seeed è un’azienda nata nel 2008 e oggi e una delle più grandi aziende che producono hardware open source nel mondo. Se un maker gli chiede di costruire un circuito, loro tengono copia del progetto. Questo potrà a sua volta essere usato da qualcun altro senza costi aggiuntivi. Si definiscono “i maker dei maker” e sono loro a organizzare la fiera di Shenzhen.
Momi Han è incaricata di occuparsi dei maker non cinesi. A un paio di settimane dall’inizio dell’evento hanno già 108 stand prenotati. E attendono migliaia di visitatori. Il movimento sta crescendo in fretta anche in Cina. L’azienda è nata in una casa privata e all’inizio aveva solo tre persone assunte. Oggi, a sei anni di distanza, ha 150 impiegati. E si preparano già a un nuovo trasloco. Lo spazio di questo capannone non basta più. “Seeed”, un seme a cui è stata aggiunta la e dell’elettronica. Eric Pan è il fondatore e l’amministratore delegato dell’azienda. Lo avevamo incontrato a ottobre scorso alla fiera dei maker di Roma ed era stato lui a invitarci a vedere come lavoravano. Ma parlare con lui nella sua azienda è estremamente complicato. Deve dare risposte a tutti e ha una riunione dietro l’altra.
Nei tempi morti Momi ci guida nei laboratori e ci spiega le linee di produzione. Ogni operaio riesce a personalizzare secondo le richieste dei clienti fino a trenta modelli hardware al giorno. Le piattaforme hardware in questione, naturalmente, sono Arduino, ovvero open source e dotate di un microcontrollore utile per creare rapidamente prototipi diversi. “I maker in genere richiedono pochi modelli dei loro prototipi ma sono disposti a pagare più del prezzo di produzione”, così Pan ha organizzato i suoi impiegati in piccoli team che si auto organizzano in funzione dei progetti.
“Per i maker cinesi giocare con gli hardware open source non è semplicemente un passatempo. La spinta iniziale e gli obiettivi finali sono quasi sempre commerciali”. Così Pan ci spiega che lo scopo della sua azienda è quello di rendere più veloce il processo che trasforma il progetto di un maker in un prototipo e quindi in un prodotto che si può immettere sul mercato. E, ci tiene a specificare anche lui, “Shenzhen è il luogo perfetto per sfidare la sorte”. Ormai la metropoli ha un’incredibile capacità manifatturiera. Qui si è in grado di produrre dal più piccolo componente elettronico al prodotto finito.
Shanzhai, la parola più anarchica del cinese moderno
“Dall’ultimo iPhone al cellulare tarocco, tutto viene prodotto qui”. C’è da sottolineare che per dire tarocco Eric Pan usa il termine shanzhai, una delle dieci parole scelte dallo scrittore Yu Hua per descrivere la Cina moderna (Feltrinelli, 2012). Shanzhai è una parola che trae origine dalla tradizione classica. Letteralmente indica una fortezza nascosta tra le montagne, poi è stata usata per descrivere i covi dei banditi, Robin Hood dell’antichità. In ultimo è passata a designare quei luoghi in cui le leggi sono sospese. “Negli ultimi anni, da quando sono diventati di moda i cellulari taroccati, economici eppure dotati delle medesime funzioni di quelli originali, il termine shanzhai ha trasformato totalmente il senso della parola “imitazione” e, al contempo, si sono cancellati i confini lessicali che inizialmente la delimitavano” scrive Yu Hua. E aggiunge: “Possiamo dire che shanzhai è la parola più anarchica del cinese moderno”.
Gli shanzhai dei prodotti elettronici sono innanzitutto sono copie a buon mercato di quelli che in Cina potremmo definire beni di lusso (vedi l’ultimo modello iPhone). Usano materiali scadenti e, spesso, software instabili. Ma nel processo che decostruisce l’apparecchio originale per poi ricostruirlo (anche se con materiali scadenti) spesso viene aggiunto valore in piccoli dettagli. Prendete il caso del GooPhone I5. In questo apparecchio è possibile estrarre e cambiare la batteria. Qualcosa che l’iPhone5, ovvero il modello originale, non permette.
Un’altra innovazione che hanno apportato i cellulari shanzhai è quella della possibilità di usare più sim sullo stesso apparecchio. Ancora prima che le marche più famose mettessero in commercio apparecchi dual sim, i cellulari shanzhai avevano individuato una necessità del mercato e avevano offerto una soluzione. Così oltre che per il prezzo, si può scegliere un modello shanzhai anche per specifiche funzionalità. Anche per questo tre quarti degli smartphone sul mercato cinese operano sul sistema Android di Google. È un sistema open source ed è personalizzabile per qualsiasi tipo di esigenza.
La copia come metodo di apprendimento
Quando si parla di shanzhai si intende in primo luogo una copia a buon mercato. Ma, come ci spiega Eric Pan “non bisogna dare un senso semplicemente negativo al termine. Nessuno si ferma mai a riflettere che l’unico modo che abbiamo di imparare è quello di copiare. Succedeva anche nell’antichità, prima di diventare un buon calligrafo e sviluppare uno stile che fosse il tuo, passavi anni a copiare i più begli esempi di calligrafia del passato”. In effetti in Cina, sin dai tempi più antichi, la copia era il picco più alto a cui un artista poteva tendere. Per duemila anni gli esami imperiali per la selezione dei funzionari hanno valutato soprattutto questa capacità.
Scrivere, dipingere o comporre poesie nello stile dei maestri dei secoli addietro faceva parte dello studio di un qualsiasi aspirante funzionario. E più gli esaminandi si avvicinavano all’originale, più erano alti i punteggi. È una modalità di apprendimento completamente diversa da quella a cui siamo abituati in Occidente. Ma i risultati non sono sicuramente da meno. I mandarini sono sempre stati una delle classi dirigenti più formate dell’intero globo e alla Cina si devono quattro delle invenzioni fondamentali per l’evoluzione dell’umanità: la carta, la stampa a caratteri mobili, la polvere da sparo e la bussola.
Hack, Make, Deconstruct, Reconstruct
Il mondo dello shanzhai segue una serie di semplici regole: non disegnare da zero ma costruire sulla base del prodotto migliore in circolazione; innovare il processo di produzione in funzione della velocità e del risparmio; condividere quante più informazioni possibile per facilitare gli altri ad apportare valore al tuo processo; non costruire se non esiste ancora un acquirente; agire responsabilmente nella catena dei fornitori. Sono regole che favoriscono la produzione dal basso e non riconoscono il valore di mercato della proprietà intellettuale.
È una controcultura che giustifica il rubare al ricco per dare al povero e si potrebbe sintetizzare con le parole d’ordine della controcultura hacker: Hack, Make, Deconstruct, Reconstruct. Il punto politico che sottolineano in molti è che più basso è lo stipendio che si è disposti a pagare per i propri operai e più sarà facile che le informazioni sui prototipi escano dalla fabbrica. E nella patria dell’elettronica mondiale, con le giuste informazioni, produrre uno shanzhai è un gioco da ragazzi.
Nel tempo si sono così andate formando piccole aziende specializzate in shanzhai. Certo, il mercato a cui si rivolgono è meno ampio di quello delle case madri, ma il margine di guadagno su ogni prodotto è quasi del cinquanta per cento. E il successo è stato gigantesco. A cavallo degli anni Dieci i vari Hi-Phone, Nokla e Motololah hanno invaso le città di terza e quarta fascia. Si calcola che solo nel 2008 in Cina sono stati prodotti 80 milioni di cellulari shanzhai. Si tratta del 20 per cento del mercato domestico. Non solo.
Questi modelli hanno conquistato anche i mercati emergenti di India, Russia e Brasile e alcuni studi hanno evidenziato come la maggior parte dei dispositivi mobili usati durante le primavere arabe del 2011 fossero importati da Shenzhen. Ma il punto di forza degli shanzhai è sopratutto la libertà immediata di adeguarsi alle esigenze del mercato. Quando nel 2012 è esploso il mercato dei tablet, i loro shanzhai sperimentarono quasi immediatamente formati più piccoli. E questi ultimi hanno conquistato il mercato cinese molto prima che i modelli di mini iPad entrassero in produzione.
Dal made in China al created in China
Ecco che lo shanzhai da semplice copia tarocca acquista valore innovativo. E nel passaggio da fabbrica del mondo a società di servizi, nella Repubblica popolare l’innovazione è diventata una necessità politica e sociale. Si tratta della zizhu chuangxin, l’innovazione autodeterminata, slogan usato dal governo che ha tra gli obiettivi per il 2020 quello di trasformare la Cina in un paese “scientificamente avanzato”. Oggi, come ripete fino allo sfinimento la stessa leadership, bisogna passare dal made in China al created in China. E i prodotti di elettronica shanzhai si collocano esattamente a metà di questo percorso.
Si tratta di migliorare il design, abbassare i costi e assumersi il rischio di impresa. Ed è così che le regole auree dello shanzhai sono passati alla nuova cultura del Do It Yourself. Di conseguenza alcune competenze e personalità che in questi anni hanno animato la scena, al limite della legalità, dello shanzhai si stanno unendo al movimento dei maker.
Il primo maker space cinese ha aperto a Shanghai a settembre del 2010. Si chiama Xin Chejian, letteralmente nuovo laboratorio. In quattro anni si sono aggiunti gli spazi di Nanchino, Pechino, Hangzhou, Shenzhen e Harbin. Yinghao Wang ha 19 anni e gestisce lo spazio di Shenzhen. Ci spiega che i vari maker/hacker space cinesi condividono idee e progetti. E sopratutto che i governi locali stanno capendo il loro potenziale economico e educativo. Così spesso questi spazi di controcultura ricevono finanziamenti governativi. Soprattutto per gli spazi che occupano.
Ma per Yinghao l’aspetto più importante rimane la collaborazione. Ce lo spiega assieme al nome che hanno scelto di dare al maker space di Shenzhen: Chaihuo, ovvero legna da ardere. Richiama un antico proverbio che recita più o meno così: “il fuoco è più alto se tutti aggiungono la loro legna”. E al momento nella Cina meridionale il fuoco dell’innovazione sugli hardware brucia talmente alto che se ne sono accorti persino nella lontana Silicon Valley.
[Scritto per Pagina99we]