Domenica 4 settembre in una piazza San Pietro straripante di fedeli si è concluso il processo di canonizzazione di Madre Teresa, d’ora in poi santa della Chiesa cattolica romana. Noi sventurati residenti in Italia, come inevitabile, siamo stati volenti o nolenti trascinati nel mezzo del fuoco incrociato tra gli ultrà della piccola «grande» donna in prima fila nella «lotta alla povertà» e chi inveiva contro l’esaltazione di una sadica velata antiabortista. Un dibattito che interesserebbe proprio poco, se laicamente si riuscisse a raccontare l’opera della suora contestualizzandola all’interno di orizzonti un po’ più ampi di quelli cattolici.In questi giorni si è scritto, letto e sentito tutto e il contrario di tutto. Da un lato, le celebrazioni dei fedeli e della stampa, con dovizia di interviste a ex orfani «salvati» da Madre Teresa – la «suora albanese» – e racconti in prima persona dei tantissimi che hanno avuto occasione di visitare o fare volontariato presso le strutture delle Missionarie della Carità a Calcutta: orfanotrofi, lebbrosari e la Home of the dying destitutes (poi rinominata Nirmal Hriday, si presume per motivi di marketing, casa dei «puri di cuore»), l’ospizio dove venivano tenuti i morenti sulle strade di Calcutta recuperati dalle suore di Madre Teresa. Dall’altro, sono riemersi gli stralci del breve saggio La posizione della missionaria di Christopher Hitchens, giornalista ateo e anticlericale che fece da voce narrante anche in un documentario contro Madre Teresa, Hell’s Angel, tratto dal libro-denuncia di Aroup Chatterjee Mother Teresa, The Untold Story. Le pietre angolari sulle quali si è costruita tutta la critica giornalistica di Madre Teresa.
Sottotraccia rimane l’impeto assolutista di arrivare a una valutazione omnicomprensiva e definitiva della vita e le opere di Anjezë Gonxhe Bojaxhiu, nata a Skopje nel 1910 ma cittadina indiana dal 1948 (l’India era indipendente da nemmeno un anno). Partire dal fatto che fosse a tutti gli effetti indiana, e non più «albanese» (parlava correntemente hindi e bengali), sarebbe un buon inizio.
Il confronto tra posizioni razionaliste – atee e anticlericali – e quelle religiose mi sembra un esercizio inutile e sfiancante, derivato dall’obbligo implicito che noi italiani subiamo sotto i colpi del racconto occidental-cattolico: la piccola suora cattolica che dona la vita alla causa della povertà nell’inferno di Calcutta, una megalopoli che nel sentire comune è sinonimo di povertà assoluta e irrimediabile, glissando sulla complessità e sulla storia della città che fu – anche suo malgrado – uno dei gioielli dell’Impero britannico, brodo primordiale di fermenti culturali che hanno fatto la storia del mondo, se avessimo percezione della Storia al di là del nostro orticello (Rabindranath Tagore, premio Nobel per la letteratura; Satyajit Ray, padre del neorealismo cinematografico indiano; a Calcutta nacque il movimento Swadeshi, che contribuì enormemente alla lotta per l’indipendenza dall’Impero britannico…). Insomma, Calcutta era Calcutta ben prima che diventasse «di Madre Teresa».
Allo stesso modo la povertà è fenomeno diffuso ed endemico in India e veniva, viene e verrà affrontato da centinaia di migliaia di ong laiche, hindu, musulmane, buddhiste, purtroppo per noi sprovviste di una macchina della propaganda equiparabile al Vaticano e, per questo, posizionate al di fuori dell’area coperta dal nostro radar del senso di colpa. Associazioni che lavorano sul campo, lontane dalla pornografia del dolore della Calcutta «di Madre Teresa» e di quel cattolicesimo oscurantista, antiabortista, contro gli anticoncezionali, esaltato nella propria missione evangelica di «salvezza» e spesso incapace di scendere a compromessi con le differenze culturali che si racconta come Salvatore unico degli ultimi.
Senza contare economisti e studiosi (molti indiani, da Amartya Sen a Jayati Ghosh, per citare due pesi massimi) che a differenza di Madre Teresa, riportando le parole di papa Francesco all’omelia di domenica, non si sono limitati a «far sentire la [propria] voce ai potenti della terra, perché riconoscessero le loro colpe dinanzi ai crimini – dinanzi ai crimini! – della povertà creata da loro stessi», ma continuano a cercare soluzioni sistemiche per sradicarla, la povertà.
L’opera caritatevole di Madre Teresa, senza negare l’abnegazione a un’idea di solidarietà cattolica funzionale agli obiettivi di autoesaltazione di una certa Chiesa (utile il paragone, rimanendo nel cristianesimo, con la Teologia della liberazione, osteggiata durante il papato di Giovanni Paolo II) che ha avuto effetti benefici per migliaia di bambini adottati, a uno sguardo laico ha ben poco a che fare con la lotta alla povertà (Hitchens dice bene di Madre Teresa che non era amica dei poveri, ma «della povertà») e ancor meno ha rappresentato una denuncia circostanziata delle cause della povertà, limitandosi ad alleviare sofferenze di cui però si rifiutava di individuare la provenienza. Come del resto, secondo dottrina, non meritava scrutinio etico la provenienza dei fondi che a pioggia arrivavano nelle casse delle Missionarie della Carità, attingendo dalla ricchezza quantomeno controversa di dittatori, truffatori, massoni e (neo)fascisti (spicca, nei nostri orticelli, l’appello che Madre Teresa inviò alla commissione per il Nobel per la letteratura, caldeggiando la candidatura dell’amico Licio Gelli) per cifre mai piegate ai criteri della trasparenza.
La storia di Madre Teresa, quindi, non può che essere interpretata attraverso lenti diverse e inconciliabili: quella dei devoti, per cui la protagonista Madre Teresa è circondata da bisognosi comprimari accuditi nello spirito e nel corpo, e quella dei non devoti, secondo i quali la vita della suora si muove all’interno dell’enorme ingiustizia della povertà, offrendo «attenzioni» cristiane a vittime di meccanismi socioeconomici che necessitano di soluzioni un filo più complesse di «Dio ha creato noi e noi abbiamo creato la povertà. Il problema si risolverà solo quando noi avremo rinunciato alla nostra ingordigia» (Tiziano Terzani intervista Madre Teresa, tratto da In Asia).
Se i primi hanno la libertà di ricordare e valutare Madre Teresa secondo il proprio metro di fedeli, che domenica scorsa l’ha elevata alla santità, a tutti gli altri consiglio una formula meno impegnativa: Madre Teresa era una missionaria cristiana cattolica che è stata vicino, fedele alla propria missione evangelica, ai bisognosi di Calcutta.
Niente di più, niente di meno.
[Scritto per Eastonline]