Made in China Files

In by Gabriele Battaglia

Il nostro punto quotidiano sulle news e gli approfondimenti da Cina e Asia. Il porno di Hong Kong che piace anche alla Cina. Le conseguenze dei Panama Papers sui giornali hongkonghesi. La Cina raccontata con gli strumenti della sinologia: recensione del primo volume di Cina Report – Politica, società e cultura di una Cina in ascesa. E infine Gurugram, ex Gurgaon, città modello per lo sviluppo del futuro che non entusiasma i residenti.

Hong Kong si dà al porno, la Cina sbircia di Alessandra Colarizi

Luci soffuse, kimono, tappetini di bambù e corde. Sono le armi del mestiere del bondage erotico giapponese con cui Tracy Wong e gli animatori del collettivo culturale Goooood Secrets hanno aperto le danze dell’Orgasmo Festival 2016, una prima assoluta per Hong Kong.

In Cina e in Asia – Giornalista di Hong Kong licenziato per i Panama Papers di Redazione

I titoli della nostra rassegna di oggi:

– A Hong Kong i Panama Papers fanno saltare i giornalisti
– Nucleare sulle isole contese
– Sospesa la squadra anti-corruzione del G20 a guida cinese.
– Lo scandalo abusi tocca uno dei Paesi meno cattolici al mondo: il Giappone
– Pirati delle Filippine

Raccontare la Cina di Xi Jinping utilizzando gli strumenti della sinologia di Simone Pieranni

L’intento è pregevole: la casa editrice Carocci ha inaugurato il primo di una serie di volumi annuali sulla Cina, per darne un’immagine vivida e originale, capace di spaziare dal dettaglio politico a quello più culturale e sociale. Si tratta della collana Cina Report, il cui primo numero ha come titolo Politica, società e cultura di una Cina in ascesa – L’amministrazione Xi Jinping al suo primo mandato – a cura di Marina Miranda (20 euro). E lo scopo – nei contributi di sinologi italiani – è indagare questo primo periodo del regno di Xi Jinping da una prospettiva di studio, provando a capire a che punto è il «sogno cinese» promesso dal nuovo leader.

L’importanza di chiamarsi Gurugram: ultracapitalismo in salsa hindu di Matteo Miavaldi

Gurgaon, a uno sputo da New Delhi, dovrebbe essere una specie di città del futuro, un’oasi di modernità e presunta efficienza dove gli effetti della liberalizzazione del mercato indiano post anni ’90 hanno avuto sfogo in complessi residenziali avveniristici – e, secondo chi scrive, mostruosi – sedi di multinazionali e giganti dell’India Inc., centri commerciali e brodo primordiale dello yuppismo nell’India settentrionale. Gurgaon, a tutti gli effetti, non è una città: è un brand, uno status symbol, una filosofia dell’esistenza proiettata verso l’Eldorado estetico dell’Occidente. Dal 12 aprile scorso, rispondendo a una millantata richiesta «dal basso», il governo dell’Haryana (in cui ricade il territorio di Gurgaon) ne ha cambiato il nome in Gurugram, rifacendosi alla tradizione letteraria – sovente scambiata per Storia – del poema epico Mahabharata. La novità, eufemisticamente, non ha entusiasmato i residenti.