Madama Butterfly, memorie di una «ghesha»

In by Gabriele Battaglia

 Il personaggio di Madama Butterfly ha avuto un ruolo fondamentale nel modellare la figura della donna giapponese agli occhi del pubblico occidentale. Una rappresentazione che si fonda soprattutto su un immaginario esotico e orientalista, ma che, paradossalmente, scrive Giorgio Colombo, in alcune circostanze, si fa accurato. Un esempio è la descrizione della geisha. Vi regaliamo un estratto da L’avvocato di Madama Butterfly, per gentile concessione di ObarraO Edizioni.Come detto, Butterfly ha svolto un ruolo importante nel modellare la figura della donna giapponese agli occhi del pubblico occidentale. Nel confuso ma potente orientalismo del libretto, non poteva mancare un riferimento a quella che nell’immaginario internazionale è la dama giapponese per eccellenza: la geisha. Da questo punto di vista, la rappresentazione che viene data della professione di geisha nel libretto è talmente imprecisa da diventare – paradossalmente – quasi accurata.

L’unico riferimento esplicito è il seguente:

Atto I
Butterfly: Nessuno si confessa mai nato in povertà, non c’è vagabondo che a sentirlo non sia di gran prosapia. Eppure senza millanteria conobbi la ricchezza. Ma il turbine rovescia le querce più robuste ~ e abbiam fatto la ghesha per sostentarci. (alle amiche) Vero?
Le amiche: Vero!
Butterfly: Non lo nascondo, né m’adonto.

La giovane Butterfly ha dunque un passato burrascoso. Di famiglia agiata caduta in disgrazia, con le sue amiche ha dovuto lavorare come ghesha (sic!) per assicurare la sopravvivenza a sé e alla sua famiglia. La figura della geisha è forse l’oggetto preferito di fraintendimento nelle rappresentazioni “occidentali” del Giappone: dipinta come “intrattenitrice” e considerata impropriamente una cortigiana-prostituta, è da secoli la quintessenza dell’immaginario erotico legato al Giappone.

È bene precisare innanzitutto che la geisha, la vera geisha (o, come più correttamente chiamata a Kyoto, antica capitale del paese e anche indiscussa capitale di tale professione, geiko«figlia dell’arte») non fa mercato del proprio corpo e dei propri favori sessuali: è un’intrattenitrice, sì, ma di altissimo livello, come una poetessa, una danzatrice, una musicista.

La professione di geisha affascina il giurista, o meglio l’antropologo del diritto: pochi mestieri infatti hanno un tale livello di regolamentazione interna, di autonomia, di prassi e rituali. Si può dire che il mondo della geisha è, utilizzando un approccio tipico del pluralismo giuridico (e dunque del rigetto del centralismo statale nella produzione di regole), un autentico ordine legale autonomo.

La «regolamentazione» (in senso improprio, s’intende) della professione è pervasiva e riguarda ciascun aspetto della geisha: dalla formazione, che richiede anni di addestramento nelle varie arti del canto, della danza, della conversazione, alle procedure di debutto, fino alla gestione delle case da tè dove le geisha lavorano, tutto è minuziosamente codificato da prassi che ovviamente non sono leggi dello Stato ma sono percepite come vincolanti da tutti gli (le) appartenenti a quel mondo.

Le norme delle geisha alle volte si intersecano e dialogano con la legislazione civile: ad esempio, le complesse regole di successione nella gestione delle case da tè, con tutto quello che ciò comporta nella gestione del patrimonio, un patrimonio che talvolta può essere costituito da oggetti d’arte (kimono, strumenti musicali, porcellane ecc.) che la casa ha accumulato nei secoli e che ha dunque un valore commerciale notevolissimo. Queste complesse successioni avvengono talvolta all’ombra del diritto, talvolta attraverso l’adozione della geisha più dotata da parte della precedente padrona/capofamiglia.

In ogni caso i partecipanti percepiscono queste regole come totalmente legittime. Ci sono stati casi celebri, come quello di Iwasaki Minako, in cui una geisha, presa la decisione di lasciare la professione, ha liquidato il patrimonio della casa incassando il ricavato.

Con le più sentite scuse per la digressione, ciò che preme sottolineare è che – ovviamente – non si può diventare geisha senza un lungo e rigoroso addestramento: di certo Butterfly dunque non era una geiko in senso proprio.

Nondimeno, un’altra categoria di geisha – in senso improprio – esisteva, ed è in questo caso esattamente un tipo di prostituta che, imitando in modo caricaturale i rituali delle geiko, si proponeva come intrattenitrice esclusivamente sessuale: la cosiddetta onsen geisha, così chiamate perché offrivano spesso i loro servizi presso gli alberghi degli stabilimenti termali (onsen).

La parola geisha evoca nel lettore occidentale immagini di eleganti case da tè di Kyoto e splendidi kimono, ma purtroppo sotto il medesimo termine si nasconde anche un avvilente circuito di povertà e sfruttamento di giovani donne, spesso senza istruzione e prive di altri mezzi di sostentamento. In questo senso, la lettura delle memorie di Masuda Sayo (pubblicate per O barra O nella pregevole traduzione di Silvia Taddei sotto il titolo Il mondo dei fiori e dei salici) può fare capire come, in effetti, il riferimento alla geisha come prostituta sia dapprima – in senso stretto – tremendamente improprio e poi – in senso lato – tutto sommato non scorretto.

*Professore associato di diritto comparato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Nagoya, in Giappone. Avvocato a Milano e dottore di ricerca dell’Università di Macerata, ha lavorato negli atenei di “Ca Foscari” (Venezia), Genova-Imperia e Pavia e nell’Università Ritsumeikan (Kyoto). È autore di pubblicazioni sul contenzioso internazionale, sul diritto giapponese e sul rapporto tra diritto e letteratura.

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