La storia della diaspora cinese in Madagascar non si inscrive unicamente nella logica che muove capitali e persone dalla Cina verso i paesi africani, più uniti che mai oggi grazie agli accordi suggellati nell’appendice africana della Nuova Via della sete. Nel caso del Madagascar la nuova ondata di immigrazione cinese iniziata a a metà degli anni ’90, ha la particolarità quasi unica in Africa, di andarsi a inscrivere su una comunità cinese già esistente.
La prima ondata cinese arriva in Madagascar a metà ’800. Approdano nel porto orientale di Toamasina, dalla vicine Mauritius, alla ricerca di un alternativa allo strapotere degli Hakka, l’etnia di origine cinese. Un’altra ondata proviene direttamente dalla Cina, la prima dal Fujian, poi velocemente sostituita con un’omogenea componente cantonese del Guangdong. Questi cinesi sono i lavoratori a contratto di cui i colonizzatori francesi avevano grande bisogno per portare a termine la costruzione di infrastrutture basilari come la strategica ferrovia che unisce la capitale a Toamasina. Erano uomini soli che si lasciavano le famiglie alle spalle in cerca di lavoro. Oltre alle infrastrutture, l’altro settore di occupazione fu quello agricolo, dove i cinesi divennero mediatori tra i commercianti francesi e i contadini malgasci.
Ieri come oggi, i cinesi in Madagascar, una presenza costante, ieri da lavoratori, oggi da investitori. La Cina è infatti il primo partner commerciale del Madagascar, uno dei paesi più poveri dell’Africa ma con ricchezze notevoli (minerali, pietre preziose e petrolio) e ancora in parte inesplorate. Pechino sta investendo in infrastrutture, strade, ferrovie, hotel e ad oggi sono 800 le aziende cinesi registrate nel paese, che per Pechino é anche un tassello essenziale nel proprio disegno africano.
Ma tornando ai vecchi cinesi, Les Anciens Chinois, come loro stessi si definiscono per distinguersi dalla recente ondata migratoria dei Nouveaux Chinois con la quale, a detta loro, non condividono né cultura, né modi e tanto meno la lingua. Sono i discendenti di quelli che decisero di rimanere sull’isola, da braccianti e operai divennero imprenditori anche perché la carriera pubblica gli era preclusa. Lo spirito imprenditoriale ebbe la meglio e ad oggi la comunità cinese ha in mano le redini del commercio di vaniglia (di cui il Madagascar è il primo esportatore al mondo) del caffè, e di altri prodotti essenziali, non senza che questo provochi attriti con i malgasci che si sentono derubati.
A questo punto la storia di molti degli anciens cinesi si fa più confusa, uomini arrivati da soli nel paese con il matrimonio con donne malgasce rinunciano spesso alla cittadinanza cinese, adottando nomi locali e di lì si perdono le loro tracce nelle statistiche del paese. Integrandosi nella società malgascia e divenendo nelle parole di Cornelia Schiller, studiosa delle relazioni sino-malgasce, la comunità straniera “meno impopolare” tra quelle presenti nel paese, i cinesi si disperdono. Questo dura fino all’arrivo di una nuova ondata migratoria che riaccende i riflettori sulla vecchia diaspora, riproponendo interrogativi sulla loro identità e aprendo la scena a contrasti abbastanza inusuali in quella che spesso a torto, siamo abituati a considerare come una comunità chiusa ma coesa.
I nuovi cinesi hanno iniziato a immigrare con flussi sempre regolari, a partire dagli anni ‘90, forti di un accordo commerciale con Pechino che dal 1996 ha facilitato l’immigrazione. Oggi rappresentano anche l’unico flusso di immigrazione costante nel paese. Alla radice dell’ostilità dei vecchi cinesi vi sono prima di tutto ragioni linguistiche, i vecchi cinesi ormai perfettamente integrati nella società locale, oltre al malgascio e al francese, parlano cantonese, mentre i nuovi arrivati, provenienti da Fujian e Zheijiang, riflettono il tipico modello del lavoratore cinese che parla solo mandarino ed è chiuso in un proprio nucleo di relazioni tra pari.
Alle incomprensioni linguistiche si aggiungono ragioni di competizione economica, che a ben guardare non hanno però alcun fondamento. I nuovi cinesi si dividono tra una diaspora a vocazione commerciale che urbanizzandosi ha scelto di stabilirsi nel quartiere di Behoririka a Tana che, ripulita dalle bidonville è diventato il centro del commercio al dettaglio e all’ingrosso di merci a buon prezzo, e sono spesso chiamati come responsabili per aver risvegliato il consumo in un paese con un potere d’acquisto tra i più bassi al mondo. A questa si aggiunge una componente di immigrazione temporanea, per la maggior parte manodopera utilizzata per i progetti infrastrutturali avviati dal governo cinese o manager in espatrio temporaneo per dirigerli.
I nuovi cinesi non hanno quindi vocazione imprenditoriale come i vecchi residenti, né rischiano di diventare dei competitor nei settori che questi controllano. Nulla fa presagire che i nuovi cinesi progettino una lunga permanenza nel paese, piuttosto il Madagascar sembra essere per molti dei nuovi cinesi una tappa del gran tour africano che li porterà presto altrove, spinti dall’instabilità politica della Grande Isola, dall’aumento del costo della vita e dei prezzi dei beni primari nonché dalle infrastrutture ancora pressoché inesistenti, grosso limite ai commerci.
Paradossalmente la nuova ondata migratoria ha risvegliato un’ostilità latente, un senso di estraneità che la società malgascia ha sempre avuto per chi viene percepito come estraneo, vecchio o nuovo che sia. In questo le proteste della popolazione locale in parte ricalcano quelle dei vecchi cinesi che vedono in questi nuovi cinesi provenienti da zone considerate malfamate del paese, i responsabili dell’introduzione della mafia nel paese, e che accusano di pratiche discriminatorie nei confronti dei lavoratori malgasci.
In quest’ottica, si sono moltiplicate le manifestazione di fastidio per la presenza cinese sull’Isola e per le concessioni che il governo, assetato di capitali da fuori, sta facendo alle aziende cinesi. Episodi isolati, ma costanti e che si vanno moltiplicando. L’ultimo nel 2016 a Soamahamanina nel centro del paese, dove la popolazione locale si é ribellata alla concessione dei diritti di sfruttamento di una miniera d’oro data dal governo a una società cinese, bloccandone di fatto il progetto e causando una mezza crisi diplomatica.
In questo quadro, una nota curiosa. La prima ondata di immigrazione ha avuto tra i propri membri anche un giovane appassionato di arti marziali del Guangdong. Si chiamava Gao e arrivò poco più che ventenne in Madagascar in cerca di lavoro. La leggenda narra che vittima di un’aggressione per strada, rispose facendo mostra di alcune mosse di Kung Fu. La storia si diffuse e gli valse una convocazione dall’allora Presidente, che sospettava il giovane facesse parte di gruppi che avevano guidato l’opposizione al suo governo e che avevano nel Kung Fu una fonte d’ispirazione. Appurato che Gao era estraneo alla cosa, lo volle come istruttore delle guardie presidenziali. Ruolo che mantenne e rafforzò nel tempo, impermeabile ai cambi di potere repentini del paese e alle lotte di palazzo.
Oggi il Maestro Gao, all’anagrafe José Ramaherison, è un imprenditore con investimenti in diversi settori, come consigliere di stato maggiore guida le delegazioni di investitori cinesi nel paese, è presidente della federazione nazionale di wushu e in Cina ci è tornato, ma per accompagnare la squadra malgascia alle Olimpiadi di Pechino.
Esperta di sostenibilità sociale e ambientale. Si è formata nel mondo della ricerca accademica (prima alla Fondazione Eni e in seguito all’Università Bocconi) ed é arrivata in Cina nel 2007. Negli anni cinesi ha lavorato come consulente e collaborato con diverse testate italiane online quali AgiChina e China Files per le quali ha tenuto il blog La linea rossa e la rubrica Sustanalytics oltre a curare il volume “Cina e sviluppo sostenibile, le sfide sociali e ambientali del XXI secolo, L’Asino d’oro (2015). Dopo una parentesi nel settore privato come Communications & Corporate Affairs Manager in Svizzera, é rientrata in Italia e ora vive a Milano.