L’uomo tigre

In by Simone

In una piccola cittadina indonesiana, il ventenne Margio uccide Anwar Sadat, un anziano e incallito sciupafemmine. L’omicidio viene compiuto in modo insolito: Margio ha morso il collo della vittima fino a spezzarne l’osso, proprio come una tigre uccide la sua preda. Sullo sfondo di un’Indonesia moderna ma ancora radicata in tradizioni ancestrali, il romanzo conduce il lettore in un labirinto di abusi e magie, di forti pregiudizi e impulsi irrefrenabili. China Files vi regala un brano de L’uomo tigre in anteprima (per gentile concessione di Metropoli d’Asia)
Il pomeriggio in cui Margio uccise Anwar Sadat, il sole era al tramonto e Kyai* Jahro era indaffarato con gli amati pesci del suo laghetto, accompagnato dall’aroma salmastro che aleggiava tra le palme da cocco e dai gemiti in falsetto del mare. Una brezza leggera avanzava lentamente, soffermandosi tra le alghe, gli alberi e gli arbusti. Il laghetto sorgeva in mezzo a una piantagione di cacao, i cui alberi erano spogli per mancanza di cure, con frutti rinsecchiti, sottili come peperoncini, e foglie utili solo alle fabbriche di tempeh** che mandavano i loro operai a coglierle furtivamente ogni giorno all’imbrunire. In mezzo alla piantagione scorreva un ruscello pieno di anguille e pesci testa di serpente, circondato da una palude in cui si riversava l’acqua in caso di alluvione.

Quando la piantagione era stata dichiarata in bancarotta, la gente era andata a delimitare alcune aree usando dei paletti e a seminare il riso negli acquitrini, estirpando i giacinti e gli enormi grovigli di spinaci d’acqua. Tra loro c’era anche Kyai Jahro, che aveva coltivato il riso per una stagione soltanto perché era un’attività che richiedeva troppe cure e troppo tempo. Siccome di agricoltura sapeva ben poco, aveva deciso di sostituire il riso con le arachidi, che erano risultate più resistenti e meno bisognose di attenzioni; tuttavia, un raccolto di due sacchi di arachidi non poteva certo risolvergli il problema di come sbarcare il lunario. Pertanto aveva convertito quell’appezzamento di terra in un laghetto, nel quale allevava pesci di vario genere. Dar loro da mangiare al crepuscolo e guardarli boccheggiare sulla superficie dell’acqua era diventato il suo passatempo preferito.
 
L’uomo era intento a lanciare foglie di manioca e papaia e la crusca ottenuta dalla sbramatura del riso ai pesci, che facevano freneticamente capolino dall’acqua, quando sentì il rumore assordante di una motocicletta provenire da lontano, tra le file di piante di cacao. Conosceva talmente bene quel rumore che non voltò nemmeno la testa; gli era familiare come il suono del tamburo del surau*** che chiamava alla preghiera cinque volte al giorno; anzi, il rombo di quel motore era ancora più frequente, e lui, come tutti gli altri vicini, era abituato a sentirlo spessissimo.

Era la Honda 70 del Maggiore Sadrah, di un rosso ancora sgargiante, esploratrice dei sentieri tra le case. Di solito portava il suo proprietario al surau, conduceva la moglie al mercato, altre volte si limitava a vagare oziosamente tra gli edifici del quartiere; se al tramonto il Maggiore Sadrah non aveva niente da fare, andava in giro a godersi i luoghi più tranquilli e solitari. Benché avesse superato gli ottant’anni, il Maggiore Sadrah era ancora in ottima forma. Aveva smesso di prestare servizio nell’esercito da diverso tempo, era in pensione e, nelle celebrazioni dell’anniversario dell’Indipendenza, faceva parte del gruppo dei veterani; si diceva che i governanti locali gli avessero assegnato un pezzo di terra nel cimitero degli eroi per ricompensarlo della sua dedizione: un dono che lui definiva spesso un invito a morire il prima possibile.

L’uomo sterzò, deviò e si fermò accanto al terrapieno del laghetto, spense il motore e si passò il palmo della mano sulla bocca nascosta dietro ai baffi scuri, perché senza quel gesto era come se non si sentisse lui. Kyai Jahro non si voltò finché il Maggiore Sadrah non gli fu accanto, e i due si misero a parlare del temporale della sera precedente, che per fortuna non si era abbattuto durante la proiezione del film organizzata nel campo di calcio dalla locale fabbrica di jamu**** ma che aveva sicuramente reso infelici i proprietari degli allevamenti di pesci. Un temporale simile si era verificato anche qualche mese prima ed era durato un’intera settimana, come se tutti i vigili del fuoco del mondo avessero svuotato lì le loro pompe nello stesso momento.

Il fiumiciattolo, che di consueto era ricoperto più di fango che di acqua corrente, era straripato, trascinando le oche che lo abitavano verso l’estuario e sommergendo gli allevamenti. Non sarebbe stato un problema se i pesci si fossero semplicemente spostati in altri laghetti, per finire magari nello stomaco dei figli dei vicini, invece erano quasi tutti scomparsi; quando il livello dell’acqua era calato, aveva rivelato solo lumache e tronchi di banani trascinati dalla piena. Kyai Jahro guardò il Maggiore Sadrah e gli spiegò di aver preparato alcune reti per coprire i suoi laghetti, in modo da proteggere i pesci contro ogni tipo di inondazione. In quel momento un anziano in bicicletta si chinò per evitare i rami delle piante di cacao protesi lungo il sentiero fangoso e chiamò Kyai Jahro gridando.

Sebbene la bicicletta andasse velocissima, quasi senza controllo e senza freni, il conducente era abbastanza abile da riuscire a non cadere. Si trattava di Ma Soma, il maestro di studi islamici della scuola del surau. Saltò giù dalla bicicletta un attimo prima che questa toccasse il terrapieno del laghetto, poi afferrò con forza il manubrio e il veicolo si arrestò impennandosi, come un cavallo tirato per le redini. Ansimando, comunicò loro che Margio aveva ucciso Anwar Sadat, e lo fece con un tono che sembrava voler suggerire a Kyai Jahro di sbrigarsi a condurre la preghiera per il defunto, uno dei compiti che svolgeva da qualche anno.

«Mio Dio!» esclamò il Maggiore Sadrah dopo un attimo di stordimento dovuto allo choc. I tre uomini si scambiarono uno sguardo, come se si trattasse di uno scherzo che non riuscivano a trovare divertente. «Questo pomeriggio ho visto Margio con quella sua vecchia spada da samurai arrugginita, un residuo di guerra. Che disgraziato, quel ragazzo! Spero che non sia andato a riprendersela dopo che gliel’avevo sequestrata». «Veramente no», puntualizzò Ma Soma. «Gli ha strappato un nervo del collo con i denti».

Nessuno aveva mai sentito parlare di un metodo così primitivo per uccidere. Negli ultimi dieci anni in città si erano registrati dodici omicidi, commessi con un machete o una spada. Mai una pistola, mai un kris e soprattutto mai i morsi. O meglio, c’erano stati centinaia di casi che avevano implicato morsi, particolarmente in liti tra donne, ma nessuno si era concluso con la morte. Le identità dell’assassino e della vittima rendevano la notizia ancora più sconvolgente. Conoscevano molto bene sia il giovane Margio sia l’anziano Anwar Sadat, e non avrebbero mai creduto che potessero diventare protagonisti di una tragedia del genere, a prescindere da quanto Margio desiderasse uccidere qualcuno e da quanto fosse odioso l’uomo di nome Anwar Sadat.

Trascorse un po’ di tempo mentre i tre uomini, assorti nei loro pensieri, immaginavano l’odore rancido del sangue che scorreva dal collo come da una tubatura rotta e il ragazzo che barcollava in preda al panico, stupefatto dalla sua stessa avventatezza, con la bocca e i denti tinti di rosso come il muso di un cane selvatico che ha appena ucciso la sua preda. Quelle immagini che serpeggiavano nelle loro menti erano troppo scioccanti per poter essere vere. Perfino il pio Kyai Jahro dimenticò di sussurrare la formula rituale innalillahi, mentre il Maggiore Sadrah borbottava parole senza senso e si scordò addirittura di passarsi la mano sulla bocca, che gli era rimasta spalancata. Ma Soma, stanco di rimanere lì in piedi davanti a quei due, sollevò la bicicletta per girarla, facendo segno di sbrigarsi, e così si avviarono, sentendosi in preda a un panico quasi incontrollato, come se l’omicidio non fosse stato ancora commesso e loro volessero in qualche modo tentare di impedirlo.

* Maestri religiosi e leader della comunità, a capo delle pesantren, le scuole coraniche indonesiane [N.d.T.].
** Prodotto fermentato, ricavato dai semi di soia gialla, simile per consistenza al tofu [N.d.T.].
*** Luogo di culto islamico, più piccolo di una moschea [N.d.T.].
**** Medicinale tradizionale a base di erbe [N.d.T.].

*Eka Kurniawan è nato a Tasikmalaya (nella parte ovest dell’isola di Giava) nel 1975. Ha studiato filosofia alla Gadjah Mada University di Yogyakarta e lavora come giornalista, scrittore e designer. Grazie al romanzo Cantikitu Luka (2002), prende subito posto tra i maggiori protagonisti della nuova scena letteraria in Indonesia, un Paese che sta rinascendo dopo decenni di una dittatura repressiva, conclusa nel 1998. L’uomo tigre è in corso di pubblicazione anche in Francia (Sabine Wespieser) e in Inghilterra (Verso Books).