Secondo Pechino, ogni paese ha una sua cultura specifica e specifici valori che meritano rispetto. Riferimenti alle tre nuove iniziative “GDI, GSI e GCI”, sono ormai una costante nei comunicati congiunti durante gli incontri con gli emissari del Sud globale. Eppure l’approccio autoreferenziale dell’iniziativa cinese rischia di limitare notevolmente la cerchia degli ammiratori.
Si dice fosse la città più grande al mondo, con lunghe mura di argilla e un imponente palazzo reale all’interno. Stiamo parlando delle antiche rovine di Liangzhu, risalenti a 5.300 anni fa, ben 1.000 anni prima della dinastia Shang, la prima ad apparire nella documentazione storica scritta. Quella fiorita sul delta del fiume Azzurro, nell’area che oggi corrisponde alla periferia di Hangzhou, viene considerata tra le culture neolitiche più tecnologicamente avanzate al mondo: ospita le tracce di una primitiva civiltà urbana e i resti della più antica struttura di ingegneria idraulica di tutta la Cina. Ma Liangzhu non è solo la culla della civiltà cinese. Il sito archeologico offre anche i presupposti ideologici per un nuovo ordine internazionale, così come vagheggiato da Pechino: più “democratico” e inclusivo rispetto all’architettura mondiale definita dall’Occidente dopo la seconda guerra mondiale.
Può sembrare strano ma le ambizioni riformiste (qualcuno dirà “revisioniste”) della leadership cinese attingono a piene mani a quel lontano passato. Per capire perché occorre arrotolare il nastro al 15 marzo 2023, quando il presidente Xi Jinping, intervenendo a un meeting con i partiti politici stranieri, propone una nuova soluzione alle “molteplici sfide globali”: “tolleranza, coesistenza, scambi e apprendimento reciproco tra le diverse civiltà svolgono un ruolo insostituibile nel far avanzare il processo di modernizzazione dell’umanità”, ha spiegato Xi.
Da quel discorso ha preso forma uno dei pilastri della politica estera cinese: la Global Civilization Initiative (GCI), l’ultima di tre iniziative che insieme suggeriscono come perseguire lo sviluppo economico mondiale (la Global Development Initiative), il mantenimento della sicurezza internazionale (la Global Security Initiative), e la gestione delle relazioni diplomatiche (la GCI). Secondo la GCI, ogni Stato ha una sua cultura specifica e specifici valori che meritano rispetto. Pertanto è possibile convivere armoniosamente solo rinunciando all’imposizione di relazioni gerarchiche e astenendosi dall’interferire nelle questioni interne degli altri paesi. Non esiste un modello politico-economico migliore o universalmente valido.
Si tratta di una visione che promuove la saggezza degli antichi principi confuciani e taoisti (dall”armonia senza uniformità” e “della coesistenza armoniosa delle differenze”) come ricetta per affrontare guerre, discriminazioni razziali, competizioni geopolitiche tra potenze: i mali della contemporaneità che Pechino attribuisce alle vecchie potenze occidentali, smaniose di esportare il proprio sistema democratico in giro per il mondo.
Oltre a Confucio e Laozi, il trittico GDI-GSI-GCI trae ispirazione dal concetto di “comunità dal destino condiviso”, teorizzato dalla leadership cinese negli anni ‘90. Xi lo ha reso uno dei principi cardinali della sua politica estera prima ancora di avviare la Belt and Road Initiative (BRI), il progetto infrastrutturale volto a riportare l’ex Celeste Impero al centro delle dinamiche economiche e geopolitiche globali. Il presupposto è che “il futuro di tutti i paesi è oggi strettamente connesso” e che “pace, sviluppo, equità, giustizia, democrazia e libertà” sono “aspirazioni comuni” verso cui tendere. Se la BRI punta soprattutto a infondere sviluppo materiale, le tre nuove sigle gettano invece i presupposti teorici per un nuovo modello di governance mondiale. Ergo, alla Cina non basta più presentarsi come il paese in via di sviluppo diventato seconda economia mondiale. Vuole che allo status economico corrisponda un riconoscimento politico.
È un’ambizione maturata nel corso di decenni, oggi più esplicita alla luce dei “profondi cambiamenti mai visti in cento anni di storia”, come direbbe Xi: le guerre in Ucraina e Medio Oriente hanno evidenziato come una cospicua parte di mondo condivida il malcontento di Pechino nei confronti della postura occidentale nei due conflitti. Per quanto discutibile e largamente retorica, nel cosiddetto Sud globale la “neutralità” cinese viene apprezzata più della conclamata vendita di armi americane a Kiev e Tel Aviv. Sul giudizio pesano le promesse mancate del Nord del mondo in merito alla necessità di riformare gli organi multilaterali, ancora troppo poco rappresentative dei paesi emergenti. Esigenza di cui la Cina si è resa portavoce, dall’interno, incoraggiando l’ampliamento delle vecchie istituzioni internazionali (come il G20 e il Consiglio di Sicurezza dell’Onu); dall’esterno, incentivando la nascita di piattaforme concorrenziali, a partire dai BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), che nel 2024 ha accolto tre quattro membri (Etiopia, Egitto, Iran, ed Emirati arabi).
Come appare evidente, gli effetti della GCI non sono esclusivamente “culturali”, almeno non in senso stretto. Difficile non notare come la relativizzazione dei valori promossa dalla sigla smentisca l’universalità dei diritti umani, che Pechino subordina al raggiungimento del benessere economico anziché alla tutela delle libertà personali. Mentre, sottoposta a un’interpretazione westfaliana della sovranità, l’ingerenza esterna della comunità internazionale nelle dinamiche politiche dei paesi viene respinta sempre e comunque. Anche davanti all’”operazione militare speciale” di Putin in Ucraina o a una possibile (ri)unificazione di Taiwan alla Cina continentale…CONTINUA A LEGGERE SU MISSIONI CONSOLATA
Di Alessandra Colarizi
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.