Le NewJeans denunciano pubblicamente le minacce e le manipolazioni della loro etichetta discografica. Il caso fa tremare il soft power sudcoreano e finisce in parlamento
Da mesi sono al centro di una sorta di faida familiare che racconta molto delle dinamiche dell’industria K-pop, un fenomeno che in pochi anni ha valicato i confini della Corea del sud conquistando il mercato internazionale. La storia, che vede protagonisti il colosso dell’intrattenimento Hybe e Ador, una delle tante etichette di sua proprietà, si sviluppa intorno ai rapporti tra una grande società colpevole di manipolare gli artisti, una produttrice costretta a dimettersi pur di difendere la propria visione creativa e un gruppo di giovani schiacciate da conflitti interni e ripicche. Anche se, come scrive Jennifer Zhan sul magazine Vulture, c’è chi l’ha riassunta come il risultato dell’arroganza di Min Hee-jin, produttrice musicale a cui si deve il progetto NewJeans.
Ma per il gruppo non c’è dubbio: Min è «parte integrante dell’identità delle NewJeans». Le artiste hanno preso le sue difese sin dai primi screzi risalenti ad aprile, per poi alzare la voce quando la produttrice ha lasciato Hybe dopo essere stata accusata di volerle «rubare» alla società, ma anche di voler rendere Ador un’etichetta indipendente. L’ultimatum lanciato affinché fosse riabilitata come amministratrice delegata della label non ha sortito nessuna reazione e l’epilogo è giunto in fretta: il 20 novembre la produttrice ha annunciato le dimissioni ufficiali e la settimana successiva, il 28 novembre, il gruppo ha convocato una conferenza stampa urgente per annunciare l’intenzione di lasciare l’etichetta.
Ma quale futuro si può avere nell’industria musicale sudcoreana senza rispondere a una delle quattro principali società dello scenario K-pop? Dal debutto nel 2022 con il singolo Attention, le NewJeans si sono guadagnate le vette della Billboard 200, contratti con Apple e Coca-Cola e parallelismi con i giganti BTS. La società che li ha prodotti è la stessa, anche se durante l’esordio del gruppo che ha aperto le porte al K-pop nel mondo, risalente a circa dieci anni fa, la Hybe si chiamava ancora Big Hit Entertainment. Le canzoni delle nuove leve sono un sunto degli elementi più in voga nel genere: sonorità miste, che spaziando dal rhythm and blues alla liquid drum and bass richiamano i temi più popolari tra i giovanissimi e le giovanissime di fine anni Novanta e inizio Duemila; una narrazione nostalgica di cotte adolescenziali, amori incompresi e, ingrediente imprescindibile, coreografie perfette per i trend di TikTok.
Nella conferenza stampa del 28 novembre le cinque artiste hanno espresso l’augurio di continuare a lavorare sotto la guida di Min mantenendo il nome che le ha fatte salire alla ribalta. In un comunicato pubblicato il giorno successivo hanno ribadito la loro posizione e festeggiato la «libertà» da Hybe e Ador. Ma testate coreane e non già discutono su possibili sanzioni monetarie in cui potrebbero incorrere per aver rescisso il contratto prima della scadenza, stabilita nel 2029. L’accordo prevede che una parte possa tirarsi indietro se l’altra non rispetta le clausole. Ador dice di aver adempiuto a tutti gli obblighi e che l’«affermazione unilaterale che la fiducia è stata infranta» non è un motivo valido per terminare i rapporti. Secondo l’etichetta, il contratto è ancora valido.
La rottura, più o meno legittima, ha causato un terremoto mediatico e il colosso dell’intrattenimento Hybe dovrà fare i conti con quanto emerso. A poche ore dalle dichiarazioni delle cinque artiste, le sue azioni sono crollate quasi del 7%. E, soprattutto, la sua condotta è stata esposta di fronte all’Assemblea nazionale, il parlamento sudcoreano, che a settembre ha chiamato a testimoniare una delle cinque NewJeans – Hanni – nell’ambito di un’inchiesta sulle molestie sul posto di lavoro. La ragazza ha raccontato che quando la protezione di Min è venuta meno, tutto il gruppo ha iniziato a subire maltrattamenti dai manager di Ador. Le NewJeans hanno anche accusato l’etichetta di «deliberati errori di comunicazione», atteggiamenti manipolatori e altre presunte violazioni del contratto.
Ciò che è sicuro è che il caso ha svelato nuovi dettagli sulle complesse relazioni di potere che popolano il dietro le quinte dell’industria del K-pop. Un universo luccicante, la cui presunta infallibilità delle società nel scovare e promuovere idol (termine con cui ci si riferisce alle celebrità del settore) si basa sulla grande mole di lavoro a carico di artisti spesso poco più che maggiorenni, sottoposti ai rigidi controlli delle etichette e all’impietoso sguardo di una cultura coreana ancora impregnata di moralismo.
Negli ultimi anni le storie di abusi e i casi di suicidio che hanno coinvolto artisti giovanissimi sono emersi come una doccia fredda e hanno generato un certo impatto sull’industria. Il risultato è che il settore è in crisi e, malgrado i successi ottenuti all’estero, in patria le vendite sono in calo. Si parla perfino del rischio che la bolla del K-pop stia per scoppiare. I nuovi idol hanno forse maggiori strumenti per denunciare i torti subiti, ma allo stesso tempo è difficile per loro eguagliare i successi dei gruppi che hanno fatto la storia del settore.
Di Vittoria Mazzieri
Marchigiana, si è laureata con lode a “l’Orientale” di Napoli con una tesi di storia contemporanea sul caso Jasic. Ha collaborato con Il Manifesto, Valigia Blu e altre testate occupandosi di gig economy, mobilitazione dal basso e attivismo politico. Per China Files cura la rubrica “Gig-ology”, che racconta della precarizzazione del lavoro nel contesto asiatico.