Dopo i dieci anni di potere di Hu Jintao e Wen Jiabao, un’altra generazione di leader cinesi sta per prendere il mandato. Se è praticamente impossibile trarre un bilancio definitivo sui risultati ottenuti, è certamente legittimo avere delle riserve in merito. Un’analisi delle idee e delle teorie da cui la Cina dovrebbere prendere spunto.
Il rafforzarsi delle diseguaglianze socio-economiche, la corruzione diffusa e gli scandali che hanno coinvolto i massimi vertici del partito gettano un’ombra oscura sui luminosi orizzonti della ‘società armoniosa’, cavallo di battaglia di Hu Jintao. La ‘cultura cinese’, potenziale forza centrifuga promotrice di ‘coesione e creatività’, sembra oggi un personaggio in cerca di autore: ieri Mao, oggi Deng, domani Confucio o tutti questi insieme e molti altri ancora. Sono sintomi del malessere di un paese alla ricerca di una sua identità, sintomi naturali se li si analizza all’interno del cambiamento epocale che la Cina e la sua cultura hanno conosciuto negli ultimi decenni.
Tali dilemmi identitari sono emersi con forza all’inizio degli anni Novanta, quando molti intellettuali cinesi hanno riscoperto la filosofia confuciana e, combinandola al razionalismo e all’umanesimo di matrice occidentale, hanno dato vita al movimento del Nuovo Confucianesimo. In questo contesto è nata la teoria intellettuale della “Cina Culturale” (Wenhua Zhongguo) del <Prof. Tu Weiming, dell’Istituto di Studi Umanistici Avanzati dell’Università di Pechino ed ex Direttore dello Harvard-Yenching Istitute.
Secondo Tu Weiming la Cina Culturale deve essere immaginata come la costante interazione tra tre universi simbolici. Il primo è costituito dalla mainland China, da Taiwan, Singapore e Hong Kong, tutte società prevalentemente cinesi in termini sia culturali che etnici (han). La seconda sfera simbolica comprende tutte le comunità cinesi nel mondo, dalla Malesia agli Stati Uniti, definite da Pechino huaqiao (cinesi all’estero). Il terzo cerchio, da molti considerato come il più controverso, è rappresentato da tutti gli individui – accademici, giornalisti, imprenditori -, che interagiscono con la Cina e cercano di comprenderla sul piano intellettuale per poi importare la loro percezione della Cina Culturale nelle proprie comunità d’origine.
Questa tripartizione è però estremamente problematica, soprattutto nel caso della prima sfera, che in teoria dovrebbe rappresentare il centro da cui si dirama la civiltà cinese. Nel primo universo simbolico la consapevolezza etnica è stata diluita dalla commistione tra le varie razze che costituiscono il popolo han mentre la coesione linguistica è stata inquinata dal sorgere di varianti dialettali ormai mutualmente incomprensibili. La stessa coscienza storica è stata minacciata dalle contrastanti interpretazioni della Cina – confuciana, maoista, rivoluzionaria, capitalista –, mentre la globalizzazione e la stessa leadership cinese nutrivano la Cina con i nuovi sistemi di pensiero importati dall’Occidente.
Ne sono un esempio le difficoltà dei cinesi residenti a Taiwan e Hong Kong nel processo di identificazione culturale con la Repubblica Popolare Cinese (RPC). Negli ultimi decenni questo processo si è andato sviluppando sulla base di una pericolosa dicotomia: da una parte stanno i cosiddetti hua ren e dall’altra i Zhongguo ren, entrambi termini teoricamente traducibili con “cinesi” eppure profondamente diversi dal punto di vista semantico. Il primo – Hua ren – ha infatti assunto una valenza principalmente etnico-culturale, mentre il secondo – Zhongguo ren – si è ormai caricato di significati politici rimarcando il senso di appartenenza e lealtà alla RPC.
Molti cinesi, non solo cittadini della RPC, vivono questa dicotomia come una grave crisi di appartenenza e come un vuoto culturale che Tu Weiming propone di colmare attraverso la teorizzazione dell’esistenza di una Cina culturale. Quella che è stata definita da Lucian Pye “civiltà-Stato cinese” (nel senso di civiltà che pretende di essere anche uno Stato nazione) si sta disintegrando al centro e secondo Tu Weiming “rischia” di essere rivitalizzata dalla sua stessa periferia, cioè il secondo e terzo universo simbolico. La causa di questo processo è secondo Tu il processo di occidentalizzazione e marginalizzazione del Confucianesimo che ha causato una sorta di amnesia culturale collettiva. In parte ciò risale alla combinazione esplosiva tra il nazionalismo politico e l’iconoclastismo culturale della generazione del Movimento del 4 Maggio che ha creato il terreno fertile per il trionfo del Marxismo-Leninismo prima e del Maoismo poi.
Questo trend si è invertito soltanto all’inizio degli anni Novanta, quando molti intellettuali cinesi – tra cui Tu Weiming -, hanno intrapreso la strada della ricostruzione culturale e del recupero delle radici confuciane, secondo una nuova forma di Umanesimo confuciano de-politicizzato che è poi diventato una delle voci più autorevoli dell’attuale dibattito sulla Cina Culturale.
Secondo il Prof. Tu, la destituzione delle 5 virtù confuciane e lo sviluppo di una società di mercato malsana hanno causato profonde disarmonie nella Cina contemporanea, curabili solo con un ritorno alla cultura. In questo senso il Partito Comunista Cinese deve affrontare due importanti sfide.
La prima consiste di una rivalutazione della religione e del rapporto tra quest’ultima e la scienza, figlia dell’Illuminismo europeo eletta a unico principio guida della modernizzazione cinese. Il concetto di scienza è diventato secondo Tu Weiming troppo potente nella Cina contemporanea e la fede nella capacità della scienza di risolvere ogni problema ha offuscato e poi marginalizzato il potere della fede religiosa e della dimensione spirituale.
Per questo è necessario un nuovo dialogo tra religione e scienza, che sarà possibile soltanto se il governo riconoscerà l’importanza vitale della religione per l’uomo e del suo essere una possibile fonte di stabilità (e non di instabilità) sociale. La seconda sfida è costituita da un recupero dell’identità culturale cinese che produca una combinazione fruttuosa tra l’umanesimo confuciano e le necessità dello sviluppo economico in modo tale che il Pil non diventi la sola misura del successo e della felicità dei cinesi.
La ricetta proposta dal Professor Tu è un orizzonte sul quale si proiettano le speranze di molti intellettuali cinesi di oggi. L’ennesimo orizzonte, verrebbe da dire. Su di esso, come su quelli più istituzionali prodotti dai ‘piani’ della quarta generazione, è legittimo nutrire qualche riserva. Come nel caso della ‘società armoniosa’, la riscoperta del fascino secolare del confucianesimo potrebbe essere solo un altro miraggio, la risposta più ovvia e immediata – dall’ ‘alto’ – a un bisogno impellente che emerge dal ‘basso’. La Cina consumista, corrotta e inquinata non piace a nessuno, tantomeno ai cinesi, ma se è facile pensare che il suo passato confuciano possa essere la soluzione è più difficile crederlo.