Il 1° giugno l’organizzazione ShanghaiPride ha postato sul suo profilo Facebook un augurio che è un invito a coltivare la speranza. «Felice mese dell’orgoglio«, si legge nel post accompagnato da un’immagine della bandiera arcobaleno, arricchita dal rosa, celeste e grigio, emblema della comunità Lgbt+.
Shanghai era solita tingersi di questi colori ogni mese di giugno per celebrare l’orgoglio omobitransessuale. Ogni anno, dal 2009, lo ShanghaiPride organizzava parate, eventi e mostre culturali, per far interagire la comunità queer. Grazie alla connotazione internazionale della megalopoli, l’organizzazione ha avuto modo di far colloquiare elementi propriamente cinesi con quelli occidentali, in una relazione durata circa un decennio.
QUALCOSA PERÒ È CAMBIATO negli ultimi tempi. Nel 2020 lo ShanghaiPride ha cessato ogni attività, annunciando con una lettera la fine di un’era. Gli organizzatori non hanno fornito alcuna motivazione ufficiale, ma gli episodi di repressione negli anni precedenti giustificano la decisione del gruppo.
Nonostante Xi Jinping e il ritorno dei valori tradizionali, la comunità Lgbt+ cinese ha resistito al progressivo e costante soffocamento fisico, culturale e virtuale, grazie a una maggiore visibilità di cui il movimento è stato privato negli anni 80 e 90. Ma gli oltre 70 milioni di cinesi Lgbt – conseguenza dell’influenza occidentale per il governo di Pechino – affrontano un dilemma storico-culturale nel tentativo di combattere omofobia, maschilismo ed esclusione sociale. I gay pride e le sfilate queer cinesi, se paragonati a quelli occidentali, si svolgono in tono sommesso. Una scelta portata avanti negli anni per non generare critiche, incomprensioni e, persino, alimentare ostilità della società.
GLI OMOSESSUALI IN CINA devono affrontare la stigmatizzazione di una cultura che enfatizza i valori della collettività e della prosecuzione del lignaggio familiare: l’autoderminazione sessuale e l’individualismo contrastano con l’esigenza di inclusione sociale e familiare. Da qui, la necessità di conoscersi e farsi accettare trova il favore delle strategie di marketing. La pink economy – un’economia rivolta al segmento di mercato del movimento queer – arriva in aiuto alle comunità Lgbt+ cinese. L’ultima trovata è il kit dell’organizzazione gay Trueself per un perfetto coming out. Al prezzo di 15 dollari, il pacchetto “A Journey to True Self” contiene vari articoli e testimonianze di giovani gay e lesbiche che hanno dichiarato la propria omosessualità a parenti e amici. Il modello di marketing proposto da Trueself serve anche a mantenere in vita l’organizzazione ed evitare che il movimento Lgbt+ cinese torni a muoversi nell’ombra.
UNA SPINTA CHE DAL BASSO arriva ai vertici del governo. Lo scorso 20 aprile, la National Health Commission of China, l’ente statale che si occupa di sanità, ha aggiornato i criteri per la riassegnazione di genere. Con le nuove norme, le persone transessuali potranno sottoporsi all’operazione chirurgica per il cambio di sesso già a 18 anni, invece di attendere di compiere 20 anni, come richiesto dal precedente regolamento del 2017.
In Cina, le persone transessuali possono ottenere la modifica del genere anagrafico solo dopo l’intervento chirurgico per la riassegnazione del sesso.
IL REGOLAMENTO DEL 2017 prevedeva che la persona dovesse sottoporsi prima a un percorso psichiatrico per poi affrontare due operazioni chirurgiche: la rimozione e la ricostruzione dei genitali. La nuova norma, invece, precisa che il solo intervento di rimozione dei genitali possa essere sufficiente per determinare la rettificazione anagrafica del genere. Un cambiamento che va incontro anche ad esigenze economiche: l’operazione di rimozione dei genitali maschili può costare fino a 1.500 dollari, ma il prezzo può salire a 9mila dollari per l’intervento di ricostruzione.
È ancora un viaggio complesso, in cui singole personalità affrontano diverse difficoltà, ma senza perdere la speranza e l’orgoglio.
Di Serena Console
[Pubblicato su il manifesto]Sanseverese, classe 1989. Giornalista e videomaker. Si è laureata in Lingua e Cultura orientale (cinese e giapponese) all’Orientale di Napoli e poi si è avvicinata al giornalismo. Attualmente collabora con diverse testate italiane.