tibet

L’Onu riaccende i riflettori sul Tibet

In Cina, Economia, Politica e Società by Alessandra Colarizi

Secondo un rapporto dell’Onu, in Tibet circa un milione di bambini è stato allontanato dalle famiglie, ufficialmente per motivi di studio. Il programma prevede l’inserimento dei piccoli in collegi statali dove sono costretti a completare corsi di “istruzione obbligatoria” in mandarino anziché in doppia lingua. Pechino si smarca. Per il ministero degli Esteri cinese, lo studio contiene “bugie” e “voci per diffamare e screditare la Cina”.

È “una morte lenta”. Così, parlando al Congresso americano il leader del governo tibetano in esilio, Penpa Tsering, pochi giorni fa descriveva l’assimilazione cinese del Tibet. “La lingua, la religione e la cultura tibetane, che sono il fondamento dell’identità tibetana, stanno affrontando una minaccia senza precedenti di eradicazione”, ha dichiarato Tsering durante una videoconferenza organizzata il 28 marzo dalla Commissione esecutiva sulla Cina. “Spesso ci viene chiesto perché non sentiamo più parlare del Tibet”, ha osservato Tsering, spiegando che il motivo va attribuito al “sistema orwelliano della Cina” che “fa uso di tutti i mezzi di intelligenza artificiale per sorvegliare le persone, controllare il flusso di informazioni e il blocco del Tibet verso il mondo esterno”. Secondo Tsering, “se la RPC [Repubblica popolare cinese] non verrà costretta a invertire o cambiare le sue attuali politiche, il Tibet e i tibetani moriranno sicuramente di una morte lenta”.

Quello di Tsering è il primo discorso al Congresso di un Sikyong, carica creata nel 2012 dopo che il Dalai Lama ha deciso di rinunciare a qualsiasi ruolo politico per fare posto a un leader “liberamente eletto”. Una richiesta di aiuto “ufficiale” tesa a rompere il prolungato silenzio. E’ vero: il Tibet sembra non fare più notizia. La rieducazione degli uiguri nello Xinjiang ha strappato al “Tetto del mondo” la visibilità internazionale ottenuta nei primi anni Duemila per via delle oltre 100 autoimmolazioni dei monaci tibetani. Qualche attenzione in più è stata prestata dal governo statunitense, che a partire dal 2020 non solo ha introdotto una legge (il Tibetan Policy and Support Act). Ha persino dispensato sanzioni contro l’ex segretario del partito del Tibet, Wu Yingjie, e il capo della polizia locale ai sensi del Global Magnitsky Human Rights Accountability Act. 

Certo, quasi tutto quello che fa Washington ha ormai prevalentemente finalità politiche: ovvero pestare i piedi a Pechino. È quindi indicativo che a inizio febbraio siano state invece le Nazioni Unite a denunciare quanto sta accadendo nella regione autonoma. A preoccupare è soprattutto il futuro delle nuove generazioni. Secondo un rapporto stilato per l’organizzazione da tre esperti indipendenti, circa un milione di bambini tibetani sarebbe stato allontanato alle famiglie, ufficialmente per motivi di studio dopo la chiusura delle scuole rurali. Il programma prevede l’inserimento dei piccoli in collegi statali dove sono costretti a completare corsi di “istruzione obbligatoria” in mandarino anziché in doppia lingua, come imporrebbe il sistema scolastico cinese nelle aree abitate dalle minoranze etniche. Questi istituti forniscono libri di testo e un ambiente sociale incentrati solo sulla cultura Han, il ceppo maggioritario di cui fa parte il 92% della popolazione cinese. “Siamo molto turbati dal fatto che negli ultimi anni il sistema scolastico residenziale per i bambini tibetani sembri agire come un programma obbligatorio su larga scala teso ad assimilare i tibetani nella cultura a maggioranza Han, contrariamente agli standard internazionali sui diritti umani”, hanno riferito gli autori del rapporto. Stando alla ricerca, le politiche di sinizzazione imposte dal governo centrale agiscono a livello culturale, religioso e linguistico. 

Pechino si smarca. Per il ministero degli Esteri cinese, lo studio contiene “bugie” e “voci per diffamare e screditare la Cina”. In una generica invettiva contro le potenze occidentali, il dicastero ha denunciato il tentativo di “politicizzare e strumentalizzare le questioni dei diritti umani”, “abusando della piattaforma delle Nazioni Unite”. La Repubblica popolare ha formalmente introdotto una politica di “educazione bilingue” nel 2010 per tutte le regioni autonome. La posizione ufficiale delle autorità locali è che sia la lingua tibetana che quella cinese (necessaria per ottenere un buon lavoro) dovrebbero essere “promosse”, lasciando alle singole scuole la facoltà di decidere quale idioma privilegiare come mezzo di insegnamento. Ma, come avvertiva ben tre anni fa Human Right Watch, ormai l’assimilazione culturale delle etnie minoritarie ha raggiunto anche le aree rurali, che fino a poco tempo erano riuscite a mantenere una propria identità grazie alla difficile raggiungibilità. Secondo l’Ong americana la scarsa trasparenza e la mancanza di informazioni hanno permesso al governo centrale di forzare la mano senza dare troppo nell’occhio: quel “sistema orwelliano”, di cui parlava Tsering, ha reso la sommersione etnica quasi impercettibile negli ultimissimi anni. Non come le proteste vocali che nel 2021 hanno visto migliaia di persone protestare nella Mongolia interna contro una controversa riforma dell’istruzione.  

Non ci sono i centri per la “rieducazione” del Xinjiang, eppure anche in Tibet sono state introdotte politiche coercitive che ne ricordano i fini conclamati (l’emancipazione della popolazione locale) e le tecniche adottate (il lavoro forzato). D’altronde l’osmosi tra le due regioni autonome è nota fin da quando nel 2017 l’ex segretario del partito del Tibet, Chen Quanguo, fu spostato in Xinjiang. E’ con il suo arrivo che la stretta sulle minoranze islamiche locali ha raggiunto livelli senza precedenti. Seppure in forma più blanda, pare che la rieducazione attraverso il lavoro sia stata introdotta anche sul Tetto del Mondo. Nei primi sette mesi del 2020, secondo Reuters, 500.000 tibetani – circa il 15% della popolazione locale – sono stati trasferiti dalle campagne in “scuole” di formazione professionale. Il sistema, che l’agenzia di stampa britannica definisce “militaristico”, prevedrebbe il raggiungimento di quote, ed è volto a convertire contadini e pastori tibetani in operai da impiegare nel settore manifatturiero ed edile in cambio di magri salari. Le analogie tra le due regioni autonome riguardano anche la gestione dei minori: già nel 2019 diverse testimonianze attestavano il trasferimento di migliaia di bambini uiguri in appositi collegi creati per dare una sistemazione a chi era rimasto senza tutela dopo l’internamento di entrambi i genitori nei campi del Xinjiang. Intervistati da NPR,alcuni ex studenti hanno raccontato storie di malnutrizione e punizioni corporali. Tornati a casa nessuno di loro ricordava più la lingua uigura.  

Di Alessandra Colarizi

[Pubblicato su Gariwo]