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Lo strappo tra Cina e Usa su Taiwan

In Cina, Relazioni Internazionali by Alessandra Colarizi

Rispondendo alla visita di Pelosi a Taiwan, Pechino ha annunciato misure ritorsive contro gli Stati Uniti. A preoccupare è soprattutto l’interruzione dei meccanismi di dialogo tra le forze armate in piena escalation militare

“Chi gioca col fuoco, finisce per bruciarsi”. Pechino lo aveva detto fin da subito: la visita di Nancy Pelosi a Taipei  – la prima di un funzionario americano del suo rango dal 1997 – non resterà impunita. Alle parole sono presto seguiti i fatti. Venerdì la Cina ha annunciato sanzioni contro la speaker della Camera, oltre a alla sospensione (in alcuni casi la cancellazione) di otto meccanismi di dialogo con Washington. I settori coinvolti spaziano dalla cooperazione militare alla sicurezza marittima, passando per la lotta al narcotraffico e i cambiamenti climatici. Unico dossier, quest’ultimo, in cui le due superpotenze fino a oggi erano riuscite a mantenere aperto un canale di comunicazione anche nei momenti di maggiore tensione. 

Cosa succederà ora? La crisi era nell’aria da tempo. Il congelamento degli scambi segue un anno e mezzo di montagne russe per Cina e Stati Uniti. Solo di recente i rispettivi vertici militari erano tornati a parlarsi nella cornice dello Shangri-La Dialogue di Singapore dopo due anni di silenzio. Due anni scanditi dalle sanzioni americane in merito alla repressione di Hong Kong e dello Xinjiang. Pechino, si sa, non mal tollera le lectio magistralis. Ma la questione taiwanese è particolarmente scivolosa, giacché riguarda direttamente la sovranità nazionale. La Cina rivendica l’isola come propria in virtù di presunti “diritti storici” e una sua (ri)annessione – pacifica o manu militari –  viene considerata dalla leadership comunista l’ultimo ostacolo verso la realizzazione del “sogno cinese”. 

Sull’isola democratica si era espresso recentemente anche il presidente cinese Xi Jinping durante la telefonata con Joe Biden ribadendo la “ferma opposizione al separatismo”  e “all’interferenza di forze esterne” nello Stretto. Taiwan è la “linea rossa” oltre la quale i rapporti tra le due superpotenze rischiano di raggiungere un punto di non ritorno, aveva ammonito il ministro degli Esteri, Wang Yi, lo scorso anno poco prima del vertice di Anchorage. “La tattica abituale degli Stati Uniti è che prima creano i problemi e poi li usano per raggiungere i loro obiettivi. Ma questo approccio non funzionerà con la Cina”, ha articolato pochi giorni fa il capo della diplomazia cinese.

Per Pechino, Washington sta cercando di cambiare lo status quo violando gli accordi presi al momento dell’istituzione delle relazioni diplomatiche con la firma dei “tre comunicati congiunti” e il riconoscimento dell’ “Unica Cina”. Dalla controversa telefonata di Trump alla presidente taiwanese Tsai Ing-wen, Washington – che non trattiene rapporti ufficiali con Taipei – ha adottato una serie di misure ritenute dall’establishment cinese particolarmente provocatorie: una maggiore regolarizzazione della vendita di armi all’isola, l’incremento di visite di funzionari statunitensi, fino alla temporanea rimozione dell’impegno a “non sostenere l’indipendenza di Taiwan” dalla scheda informativa del dipartimento di Stato. Le ripetute “gaffe” di Biden su un possibile intervento americano al fianco dell’ex Formosa hanno contribuito a indisporre i leader cinesi, che hanno sempre considerato la politica dell’ “ambiguità strategica” un deterrente davanti alle richieste più progressiste di alcuni ambienti di Taipei. Non solo. Agli occhi di Pechino la visita di Pelosi ha minato ulteriormente la credibilità di Biden, incapace di bloccare una missione considerata inopportuna anche da buona parte della classe dirigente americana. 

Washington dal canto suo sospetto che Pechino voglia strumentalizzare la visita di Pelosi per mettere a segno quanto pianificato da tempo. Secondo Philip Davidson, ex capo del Comando dell’Indo-Pacifico, il gigante asiatico potrebbe provare a invadere Taiwan entro il 2027, anno del centenario dell’esercito popolare di liberazione. Dalla partenza dell’esponente Dem, la Cina ha avviato esercitazioni militari senza precedenti, accerchiando l’isola in sei punti diversi e lanciando missili che per la prima volta hanno sorvolato il cielo taiwanese. Mentre l’obiettivo immediato non sembra essere quello di occupare l’ex Formosa – bensì isolarla per colpirne i commerci e precludere un possibile aiuto esterno – resta sul tavolo la possibilità che, una volta terminate le operazioni marittime, Pechino si ritrovi con un vantaggio competitivo nella disposizione dei propri assets militari nel quadrante. Ancora prima della visita di Pelosi, funzionari cinesi avevano privatamente contestato che quelle nello Stretto siano “acque internazionali”. 

Non è chiaro se l’intenzione sia quella di replicare la tattica “revisionista” impiegata lungo il confine con l’India e nel Mar cinese meridionale con la creazione di “zone grigie” per ottenere obiettivi strategici specifici senza oltrepassare la soglia del conflitto. La ripetuta violazione da parte di navi e aerei cinesi della linea mediana – tracciata unilateralmente dagli States nel 1955 per prevenire nuovi scontri tra le due Cine – suggerisce tuttavia la volontà di rimettere mano agli assetti regionali definiti da Washington dopo la fine della seconda guerra mondiale. Assetti in cui Taiwan rappresenta l’anello principale della cosiddetta prima catena di isole (la prima linea di contenimento americano dalle coste cinesi), oltre che la pietra angolare dei sodalizi statunitensi tra “like-minded countries”.

“La Cina è stata storicamente vittima di un’aggressione straniera”, ha dichiarato sabato la portavoce del ministero degli Esteri cinese, “ma la Cina di oggi non è la Cina di 120 anni fa, e pertanto non accetta di “essere trattata come l’Iraq, la Siria o l’Afghanistan”. Se il pressing nello Stretto serve quindi formalmente a “punire le forze indipendentiste”, il sottotesto è piuttosto chiaro: Pechino considera la crisi taiwanese una resa dei conti con Washington e l’ex Formosa una pedina nel risiko regionale. Proprio mentre scriviamo la vice segretaria di Stato, Wendy Sherman, si trova negli arcipelaghi del Pacifico per celebrare l’80° anniversario della battaglia di Guadalcanal, combattuta tra il 1942 e il 1943 alle isole Salomone dalle forze alleate contro l’impero giapponese. Un viaggio quello di Sherman che sancisce il ritorno simbolico di Washington in un’area da sempre d’importanza strategica, lasciata per un decennio in mani cinesi. “Historia magistra vitae” è proprio il caso di dire. 

Come ci ricordano Sparta e Atene, è facile che scoppi una guerra quando una potenza in ascesa minaccia la supremazia di una potenza in declino. Con i colloqui sino-americani in standby, ora il rischio di un errore di valutazione tra le due sponde del Pacifico fa quasi più paura dei missili cinesi sopra lo Stretto di Taiwan. 

Di Alessandra Colarizi

[Pubblicato su Esquire]