L’irrespirabile sviluppo dell’Indian Dream

In by Simone

Negli anni, purtroppo quasi sempre a sproposito, si è parlato e sproloquiato di testa a testa tra i giganti d’Asia: Cina e India protagoniste dell’economia del nuovo millennio, «il secolo asiatico», due stati-continente espressione di due modelli antitetici di gestione della Cosa pubblica in lotta per la supremazia mondiale.
Ma se per quanto riguarda la potenza economica Pechino e New Delhi hanno sempre gareggiato – e gareggiano tuttora – in campionati separati (le superpotenze mondiali la prima, i «wannabe» miracoli economici la seconda, anche a parità di crescita del Pil), nell’infame competizione dell’inquinamento atmosferico la capitale indiana, suo malgrado, lo scorso anno è stata capace di salire agli onori della cronaca globale.New Delhi, benvenuti nella capitale dell’inquinamento mondiale. Così recitavano i titoli della stampa internazionale nel dicembre del 2015, quando la pubblicazione di un rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) stilato prendendo in esame 1600 città campione per la prima volta tributava alla capitale indiana il primato delle polvere sottili nell’aria, scavalcando la tradizionale capolista Pechino.
Un sorpasso netto e terrificante: non solo i livelli di irrespirabilità dell’aria delhese erano 15 volte quelli fissati dall’Oms, ma triplicavano i valori – già molto preoccupanti – della capitale cinese.

Per capirci meglio: la misurazione dei livelli di insalubrità dell’aria analizza la quantità di polveri sottili, ozono, diossido di azoto e anidride solforosa per metro cubo d’aria, secondo le linee guida dell’Oms (Air Quality Guidelines, Aqg) stilate nel 1987 e aggiornate nel 1997.

Le polveri sottili, in particolare, si dividono in due tipi: Pm 2,5 (particelle grandi fino a 2,5 micron) e Pm 10 (fino a 10 micron). Entrambe le particelle sono responsabili delle complicazioni di carattere medico legate all’esposizione ad ambienti inquinati: tosse, crisi respiratorie, infezioni polmonari o estese, nel caso riescano a trovare le vie sanguigne dai polmoni. Patologie che, secondo l’American Association for the Advancement of Science (AAAS), solo in India uccidono 1,3 milioni di persone all’anno.

Le tabelle di riferimento utilizzate in tutto il mondo per misurare l’inquinamento dell’aria si riferiscono alla concentrazione degli agenti tossici elencati sopra, individuando per convenzione sei categorie distinte: buona (da 0 a 50), moderata (da 51-100), insalubre per categorie sensibili (anziani, bambini, donne incinte, malati, da 101 a 150), insalubre (da 151 a 200), molto insalubre (da 201 a 300), pericolosa (da 301 in su).

Lo scorso mese di novembre New Delhi è stata stabilmente oltre quota 300, toccando picchi di irrespirabilità vicini a quota 500 in giorni invernali dove la coltre giallognola che tradizionalmente ricopre la città si mostrava particolarmente fitta agli occhi degli oltre 25 milioni di residenti.
Picco di un annus horribilis che, complice il battage mediatico internazionale, ha portato all’attenzione dell’amministrazione locale la questione – si vorrebbe – non più rimandabile dell’aria che respiriamo.

Sotto i colpi dell’«emergenza inquinamento» e della psicosi diffusa in città – con tanto di ospedali pubblici congestionati e avvisi alla popolazione per non far uscire anziani, malati e bambini durante le ore peggiori – il governo locale di New Delhi, guidato da Arvind Kejriwal (di Aam Aadmi Party, una sorta di movimento della società civile tramutatosi in partito dalle tinte pentastellate nostrane), ha introdotto un primo periodo di prova di quindici giorni (dal primo al 15 gennaio 2016) per la cosiddetta «odd even rule», le nostre targhe alterne.
Una misura inedita nel panorama indiano con l’obiettivo, se non altro, di mostrare all’opinione pubblica un governo «del fare» deciso a combattere l’emergenza irrespirabilità.

Le due settimane di test, molto criticate da chi ha lamentato un sovraffollamento dei mezzi pubblici, hanno senz’altro rappresentato una ventata d’aria fresca nel contesto politico nazionale, risultando in una buona performance di sensibilizzazione popolare sui problemi di salute legati all’inquinamento dell’aria. Ma, ragionano i tecnici, due settimane di targhe alterne hanno un impatto miserrimo nel computo generale dell’ambiente locale. Le automobili inquinano, è vero, ma i problemi di Delhi – e dell’India in generale – sono ben altri.

Secondo uno studio pubblicato dall’Indian Institute of Technology (Iit) di Kanpur, basato sulle rilevazioni dell’aria nella capitale tra il novembre del 2013 e il giugno 2014, i gas di scarico delle automobili rappresentano solo il 9 per cento dei Pm 10 e il 20 per cento dei Pm 2,5 nell’aria.

Mentre la più vaga categoria di «polvere stradale» contribuisce rispettivamente al 56 e al 38 per cento dei due tipi di polveri sottili. Conseguenza diretta dello stato pietoso in cui versa gran parte del manto stradale cittadino, al quale si aggiungono i detriti e la terra – o sabbia – trasportati dal vento provenienti dalle zone aride delle campagne circostanti (negli stati di Haryana e Uttar Pradesh). Per ridurre del 50 per cento gli effetti dannosi della «polvere stradale» basterebbe – d’obbligo il condizionale, poiché non si sta ancora facendo – bagnare le strade una volta a settimana.

In aggiunta, altre componenti tossiche arrivano dai roghi di rifiuti domestici, pratica comune nel subcontinente, dai forni tandoor utilizzati per cucinare in gran parte dei ristoranti e delle bettole cittadine, dalle betoniere artigianali e dai generatori d’energia elettrica a diesel, la soluzione autoctona alla penuria di potenza elettrica installata nazionale e ai conseguenti – non infrequenti – blackout.

Sempre secondo lo stesso studio, i livelli di concentrazione di Pm 10 e Pm 2,5 per metro cubo d’aria d’estate e d’inverno raggiungono picchi spaventosi. Considerando che la soglia di salubrità dovrebbe essere 2 micron per metro cubo, le tabelle dell’Iit di Kanpur mostrano concentrazioni medie fino a 1200 micron per metro cubo d’inverno, oltre 500 d’estate.

Il problema, insomma, ha dimensioni enormemente più vaste del traffico stradale cittadino, soprattutto in una congiuntura storica e politica che vede il Sistema India lanciato verso nuovi sforzi di crescita.

L’impulso per una ripresa della rincorsa al colosso cinese, in campo economico, è arrivato dalla vittoria schiacciante alle ultime elezioni nazionali del 2014 della coalizione di destra conservatrice guidata da Narendra Modi, esponente del Bharatiya Janata Party (Bjp). La parola d’ordine, da allora, è stata vikas: quel progresso, in hindi, che NaMo ha promesso di portare in tutta la Repubblica seguendo il modello di sviluppo già applicato nella propria precedente esperienza amministrativa a capo del governo locale del Gujarat. Un miracolo economico (crescita media del Pil all’8 per cento in otto anni di reggenza, due mandati) fatto di infrastrutture, svendita di terreni agricoli a multinazionali, incentivi statali per attirare i tanto agognati Foreign direct investments di cui l’India ha disperato bisogno per crescere. In una parola: ultraliberismo.

In un contesto simile, quando l’India si sta preparando a diventare la nuova «fabbrica del mondo», le questioni di carattere ambientale diventano materia di discussione risibile, se non direttamente affrontata con fastidio.

Ne è stato esempio plastico l’approccio indiano alla conferenza sui cambiamenti climatici Cop21 tenutasi a Parigi nel dicembre del 2015.
Mentre le potenze mondiali si riunivano alla ricerca di un accordo che limitasse le emissioni di gas serra in uno sforzo globale a tutela dell’ambiente, la delegazione indiana – esprimendo opinione condivisa da molti paesi in via di sviluppo – dichiarava all’Huffington Post India: «Non abbiamo intenzione di scusarci per il nostro utilizzo di carbone. L’America e il mondo occidentale si sono sviluppati per gli ultimi 150 anni alle spese dell’energia a basso prezzo derivata dal carbone. E alle spese di questa "energia low-cost"si sono costruiti le loro autostrade, le loro ferrovie, le loro fabbriche, i loro laboratori e improvvisamente tutta la loro gente ha un lavoro, ha una casa, il loro Pil pro capite supera i 70mila dollari all’anno e la loro crescita è ferma a zero. E adesso hanno lo stomaco di chiedere al resto del mondo "per favore, non crescete. Se crescete tutti alla velocità dell’India, cosa ne rimarrà di noi e dei nostri paesi?”».

A sostegno della posizione indiana, piace citare un dato – vecchiotto in realtà, dati del 2012, riportato dal Financial Times qualche giorno prima del Cop21 – relativo alle emissioni pro capite globali: l’India contribuiva a un «misero» 1,6 tonnellate di diossido di carbonio a persona, contro le 7,1 cinesi e le 16,4 statunitensi. Solo che in India ci vivono 1,2 miliardi di persone, e stiamo parlando di una stima al ribasso, proiettata a sfondare la soglia di 1,5 miliardi entro il 2020. E nulla lascia intendere che a un incremento demografico corrisponda una diminuzione dell’inquinamento.

Con proiezioni di crescita del Pil stimate al 7 per cento – primo paese tra le economie emergenti, nonostante l’aritmetica della stima sia fortemente dibattuta agli analisti – questa seconda metà degli anni Dieci per l’India non è proprio il momento adatto per porsi problemi «da primo mondo».

Da un lato si promuovono quindi soluzioni altisonanti e sul lungo termine – dalla catastrofica campagna Swacch Bharat (India Pulita) alla proposta di un’«alleanza globale solare» per il potenziamento dell’energia solare dei paesi situati tra il tropico del Cancro e del Capricorno, che dovrebbe vedere il proprio quartier generale amministrativo proprio a New Delhi – ma dall’altro, inevitabilmente, si continua a far finta di nulla, perseguendo l’obiettivo del progresso ad ogni costo. Anche a quello dell’aria che si respira.

A riprova della dimensione nazionale del fenomeno, lo scorso 12 maggio la stampa indiana ha euforicamente accolto un nuovo rapporto dell’Oms sull’inquinamento dell’aria nelle città del mondo.
Titolo: New Delhi non è più la capitale dell’inquinamento.
Occhiello: Zabol, in Iran, è la nuova città più inquinata della Terra.

Giubilo delle amministrazioni e rivendicazioni di bontà dell’esperimento «odd even rule» da parte del «sindaco» Kejriwal. Ma, come spesso succede, c’è il trucco.
Il nuovo rapporto ha preso in esame altre 1400 città da 103 paesi, portando la base del sondaggio a un totale di 3000 centri urbani.

New Delhi si attesta in tredicesima posizione. Ma il posizionamento nazionale nella classifica rimane allarmante: nelle prime venti città più inquinate al mondo (riferimento alla concentrazione di Pm 2,5 nell’aria), dieci si trovano in India, il paese più rappresentato assieme alla Cina (quattro città e non c’è Pechino, in 56esima posizione).

[Scritto per Missioni Consolata]