Rivale di Shein, con cui ha sfiorato la guerra legale e anch’essa accusata di sfruttamento dei lavoratori, la piattaforma cinese di e-commerce è diventata la più scaricata negli Usa
Shein e Temu sono due piattaforme di proprietà di aziende cinesi ma pensate per un pubblico internazionale. La prima vende capi di abbigliamento e accessori economici ma di tendenza, la seconda propone qualsiasi oggetto dello scibile umano a prezzi stracciati. Dopo mesi di guerra legale si intravede una tregua. Nei giorni scorsi gli avvocati delle due società hanno presentato dichiarazioni congiunte chiedendo l’archiviazione delle cause legali intentate nell’ultimo anno.
Un iter partito lo scorso dicembre, a una manciata di giorni dall’ingresso di Temu nel mercato statunitense. Shein accusa il rivale di aver diffuso sui social media “dichiarazioni false e ingannevoli” sul suo operato. Il nuovo e-commerce ricambia con un causa secondo cui il brand di fast fashion obbligherebbe i fornitori a firmare contratti esclusivi per minare le possibilità di crescita del competitor.
Malgrado abbiano rinunciato alle rispettive cause giudiziarie, resta improbabile per entrambe accaparrarsi un’ampia fetta nel competitivo mercato statunitense. Eppure Pinduoduo, la piattaforma “madre” di Temu del colosso Pdd Holdings, ha accumulato una certa esperienza in merito. Fondata nel 2015, ha fatto presto ricredere chi pensava non fosse possibile intaccare il duopolio dei giganti Alibaba e Jd.com.
La piattaforma ha investito nel settore inesplorato dei prodotti agricoli. Ma, soprattutto, ha fatto proprio il concetto di “gruppo d’acquisto”: in poche parole, si imita l’esperienza di acquisto offline e si incoraggia i consumatori a fare gruppo per assicurarsi prezzi più competitivi. In Cina il sistema è divenuto quasi indispensabile in tempi di pandemia. E Temu lo ha replicato all’estero.
Sperimentando il “social shopping”, sul sito gli utenti possono “giocare” con punteggi e livelli e scambiarsi bonus e coupon. Lo scopo ultimo è “fare shopping come un miliardario”, come assicura l’accattivante pubblicità creata ah hoc per il Super Bowl del 2023. La comparsa nel grande evento sportivo statunitense ha permesso alla piattaforma di diventare l’app più scaricata negli Stati Uniti, superando TikTok, Amazon e Instagram.
Su altri fronti è facile trovare analogie tra i due rivali. Entrambi approfittano di un modello produttivo noto come “dalla fabbrica al consumatore”, già messo a punto da AliExpress, e-commerce dell’impero Alibaba fondato da Jack Ma, che da oltre un decennio vende prodotti a basso costo nel vecchio continente (anche se la sua quota di mercato in Europa occidentale non supera il 4%. Amazon, invece, è solido al 20%). La maggior parte dei venditori di Temu risiede in Cina (circa il 70%, secondo le stime della scorsa estate) e ha quindi facile accesso alle catene di approvvigionamento globali. La merce arriva all’acquirente per via diretta, senza bisogno di magazzini di smistamento nei paesi di destinazione.
Le due società, inoltre, affrontano un destino condiviso di sguardi scettici, se non quando critiche feroci, da parte di media internazionali e governi dei paesi dove hanno raggiunto in fretta la popolarità. Sotto il mirino sono finite le pratiche di sfruttamento del lavoro e le conseguenze dei loro sistemi di produzione dal punto di vista ambientale.
L’ultimo caso dello scorso giugno ha visto alcuni deputati Usa sostenere che Temu non garantirebbe la conformità con la legge sulla prevenzione del lavoro forzato degli uiguri, la minoranza che abita la regione occidentale cinese dello Xinjiang e contro cui Pechino, secondo l’Onu, opererebbe “gravi violazioni dei diritti umani”.
Si è discusso anche della sicurezza digitale. A inizio settembre un rapporto pubblicato dalla società di analisi newyorkese Grizzly Research (che per un breve lasso di tempo ha raggiunto una grande risonanza anche in Italia) ha affermato senza mezzi termini che Temu è il malware più pericoloso in circolazione.
Il marasma mediatico non sembra aver intaccato le sue prestazioni. I prezzi stracciati si configurano come un’arma potente in un momento in cui i consumatori occidentali sono colpiti dall’inflazione post-pandemia. A vincere è anche un’esperienza ancora più calibrata sulle esigenze dell’utente. L’app sembra sia stata creata per fare sfoggio dell’innovazione dall’ecosistema digitale della Repubblica popolare. Lontani i tempi in cui i siti cinesi vendevano capi bizzarri e di infima qualità, ora l’esperienza di acquisto è più sicura: alcuni osservatori sostengono che il processo di apprendimento automatico sia addirittura dieci volte più preciso di quello di Amazon.
Di Vittoria Mazzieri
[Pubblicato su Il Manifesto]Marchigiana, si è laureata con lode a “l’Orientale” di Napoli con una tesi di storia contemporanea sul caso Jasic. Ha collaborato con Il Manifesto, Valigia Blu e altre testate occupandosi di gig economy, mobilitazione dal basso e attivismo politico. Per China Files cura la rubrica “Gig-ology”, che racconta della precarizzazione del lavoro nel contesto asiatico.