Dal 6 febbraio gli Stati Uniti sono piombati nella Linsanity. Tutti pazzi per Jeremy Lin, nuova star americana di origini asiatiche della NBA. La storia del giovane Lin sembra scritta a tavolino da una manciata di autori di Hollywood, una delle grandi storie del sogno americano.
Jeremy Lin, 23 anni, nella seconda settimana di febbraio viene votato come Eastern Conference Player of the Week: 27,3 punti e 8 assist di media ma, soprattutto, 38 punti contro i Lakers di Kobe Bryant.
La settimana seguente, contro i Toronto Raptors, da vero leader cercherà e segnerà il canestro sulla sirena che porterà i suoi Knicks alla settima vittoria consecutiva, una tendenza positiva che va a braccetto col maggior minutaggio dato a Lin.
Lin che – come piace molto ricordare ai giornalisti sportivi americani – fino a poche settimane fa dormiva sul divano di suo fratello a New York in attesa di un contratto, oggi è il leader dei New York Knicks e l’idolo della comunità asiatica americana.
Figlio di immigrati taiwanesi, Jeremy Shuhao Lin cresce a Palo Alto, California. Il padre Gie-Ming insegna a giocare a basket a Jeremy ed ai suoi due fratelli nell’oratorio della zona, mentre la pia madre Shirley insegnerà loro a pregare e rendere grazie al Signore, cristiano evangelico.
Dei tre Lin, Jeremy è senz’altro il più dotato: brilla sul parquet della high school di Palo Alto e sogna una chiamata con borsa di studio dalle università migliori del Paese. Borsa di studio per meriti sportivi, magari per la rinomata Stanford, vicinissima a casa.
Siamo nel 2006, Lin spedisce dvd dimostrativi delle sue doti a destra e manca, ma nessuno nel mondo dello scouting universitario rimane particolarmente impressionato. Lin è un asiatico con buona tecnica ma con un fisico niente di speciale. Gli scout cercano la forza della natura; della tecnica se ne parlerà poi.
Nessuna borsa di studio per Lin, che si iscrive così al corso di economia ad Harvard, sulla East Coast, dietro garanzia di un posto assicurato in squadra.
Pochi giorni fa, durante una surreale intervista in un salotto televisivo di una rete cristiana taiwanese, Lin al fianco della madre ha spiegato – in inglese – come la scelta di Harvard fosse stata “fortemente voluta da Dio”.
Lin non è il tipico campione di pallacanestro americano, di solito cresciuto nei ghetti e devastante nell’uno contro uno, tutto fisico e poca tattica; Lin ha una conoscenza sopraffina del gioco, sa quando tirare e quando passare, difende e fa girare la squadra. Insomma, un giocatore, se vogliamo, molto più europeo, in contrasto con gli atleti afroamericani “genio e sregolatezza” della pallacanestro da strada.
Questa peculiarità non lo aiuta nella selezione per la NBA: ancora una volta viene snobbato da tutti, pur a fronte di statistiche di tutto rispetto nella sua carriera universitaria.
Ma è “piccolo”, asiatico e non brilla negli allenamenti dei camp di selezione, strutturati perché possano emergere le doti del giocatore uno contro uno, due contro due. Lin, per essere efficace, ha bisogno di tempo e spazio, lussi che la lotta all’ultimo sangue per un posto in NBA raramente concede.
Riesce a mettersi in mostra solo grazie a Donnie Nelson, general manager dei Dallas Mavericks, che invita Lin ad unirsi alla squadra durante la Summer League, il torneo pre-campionato. Alla fine del tour riceve quattro offerte e decide di firmare per i Golden State Warriors di San Francisco, California.
San Francisco, noteranno i più attenti, vanta la Chinatown più grande di tutti gli Stati Uniti. Le maglie dei Warriors targate Lin si venderanno ancor prima che Jeremy esordisca in una partita ufficiale.
Ma i Warriors del 2010-2011 sono una squadra piena di palleggiatori, piccoletti che sanno portare la palla e tirare da fuori. Lin viene ancora una volta bistrattato, costretto alla panchina o addirittura fuori rosa per la maggior parte della stagione. Un’altra prova per il suo carattere docile ed umile, doti quasi da extraterrestre nella NBA tutta gangsta rap e celebrità che siamo abituati a conoscere.
Nell’estate 2011 la NBA si ferma per il famoso lockout, la trattativa tra dirigenza e società che rischiava di far saltare il campionato. Molti giocatori NBA decidono di non stare con le mani in mano, iscrivendosi ad altri campionati in giro per il mondo per tenersi in allenamento. Lin va in Cina e gioca alcune partite coi Dongguan Leopards del Guangzhou, dove impressiona tutti con le sue capacità.
Yao Ming, ex stella cinese del basket americano, cerca in tutti i modi di convincere Jeremy a rimanere in Cina, fallendo, si dice, più per cavilli contrattuali che per mancanza di volontà da parte del giocatore, che all’epoca non era nemmeno sicuro di avere un campionato NBA a cui tornare.
Ma la stagione finalmente riparte e Lin diventa merce di scambio a perdere: il suo contratto viene giudicato troppo oneroso in rapporto qualità-prezzo e ogni squadra cerca di liberarsi di giocatori mediocri ma costosi per potersi accaparrare almeno un vero e proprio fuoriclasse.
Approda infine ai New York Knicks, una franchigia impegnativa con un pubblico molto esigente e affamato di riscossa dopo molte stagioni sottotono.
La star a New York è Carmelo Anthony, tipico giocatore NBA che impone lo schema 1-4: uno ha la palla – io – voi quattro aspettate fuori dalla linea dei tre punti. In un ambiente simile sarebbe stato un altro anno di sofferenze, ma Anthony si infortuna agli inizi di febbraio.
Lin, che era stato già capace di guadagnarsi la fiducia della squadra e dell’allenatore Mike D’Antoni (vecchia conoscenza della pallacanestro italiana con la Virtus Milano), inizia a giocare di più. Sempre di più. E qui inizia la Linsanity.
Non c’è canale sportivo che non parli di lui, le copertine dei magazine – anche il Time – lo ritraggono in foto ed improvvisamente, come solo negli Stati Uniti può succedere, un mister nessuno di 23 anni è sulla bocca di tutti, oscurando star del calibro di Bryant e James.
In Cina, rimasti orfani del gigante Yao Ming costretto a ritirarsi per problemi fisici, i fan della pallacanestro americana hanno adottato Lin Shuhao come loro idolo sportivo, intasando le iscrizioni del suo account Weibo, ora ben oltre il milione. Ed ora è questione aperta tra Cina e Taiwan su chi debba vantarne i natali.
I nonni di Lin sono originari dello Zhejiang, regione tradizionalmente decisamente orgogliosa dei suoi cittadini. Per i cittadini di Hangzhou Lin è quindi “l’orgoglio dello Zhejiang”.
Ma i nonni emigrarono a Taiwan, i genitori di Lin sono entrambi americani con doppia cittadinanza taiwanese e a conti fatti Jeremy Lin dovrebbe essere considerato come un cittadino americano di origini taiwanesi.
Che, per la cronaca, pronuncia a fatica alcune parole di cinese mandarino. Nella triste contesa genetica si è inserita magistralmente l’agenzia di stampa cinese Xinhua, con un accorato appello a Jeremy Lin: rinuncia alla cittadinanza americana e vieni a giocare da noi!
Il pezzo, che è stato subissato di commenti negativi e sfottò nella rete cinese, è interessante al di là della sparata in sé. L’autore non cita mai Taiwan, che in Cina è considerata una sorta di “regione ribelle” appartenente alla Repubblica popolare, e per fugare ogni dubbio Jeremy Lin viene descritto come “un giocatore cinese d’oltremare proveniente dalla regione dello Zhejiang”, definizione che sicuramente avrà fatto andare su tutte le furie i cugini di Taipei.
Stretto tra due fuochi, Jeremy Lin ha avuto ancora una volta l’occasione di dare prova della sua maturità, mantenendosi sempre lontano da queste contese, mentre l’effetto Lin sta lentamente modellando le strategie di marketing dei New York Kincks e della NBA tutta.
Si parla di contratti con stazioni televisive cinesi per trasmettere più partite dei Knicks, di merchandising spedito a vagonate oltre la Grande Muraglia, una strategia che il responsabile NBA per il mercato cinese David Shoemaker ha descritto al Wall Street Journal come “capitalizzare l’ascesa di Lin”.
Intorno al 23enne di Palo Alto si sta creando un’aspettativa asfissiante: lo scettro di Yao Ming deve passare di mano, la comunità asiatica – negli Stati Uniti e fuori – ha bisogno di un idolo capace di attirare fan, spettatori, soldi.
L’arrivo in NBA di Yao Ming nel 2002 è stato chiaramente un’operazione di marketing curata nei minimi dettagli: Yao era il gigante cinese sconosciuto in Occidente – 2,29 metri, è ancora il giocatore più alto ad aver mai militato nella NBA – blindato da un contratto d’acciaio con la Chinese Basketball Association che lo vincolava a giocare per la nazionale cinese e che, approdato negli Stati Uniti, ha definitivamente aperto il mercato della pallacanestro in Cina.
Un esperimento provato nel 1999 con Wang Zhizhi, primo giocatore cinese in assoluto ad entrare nel campionato americano: a fine stagione non voleva più tornare in Cina, hanno mandato due amici dell’esercito a riprenderlo. Yao Ming sapeva invece di andare a giocare in NBA “per la Cina”, in senso sportivo ed economico.
Ma ora abbiamo Jeremy Lin, un ragazzino californiano che di cinese ha solo i geni ed è arrivato in NBA passando per i sotterranei, non con ponti d’oro costruiti sopra il Pacifico. Cittadino americano, nato e cresciuto negli Stati Uniti, che della cultura cinese non ha assolutamente nulla.
Fuori dai giochi politici ed economici di due potenze mondiali, Lin sembra non abbia nessuna intenzione di diventare un nuovo Eroe dei Due Mondi e sente il peso di un’altra inevitabile responsabilità che le sue prestazioni in campo gli hanno portato: diventare il simbolo degli americani di origine asiatica, spesso vittime di razzismo becero e scarsamente rappresentati nel mondo dello sport Usa.
Jeremy Lin ne è la prova vivente, e i suoi risultati in campo sollevano già molte questioni sul razzismo come metro di giudizio nelle selezioni sportive americane.
Mentre i Knicks continuano a vincere – e Lin a segnare, ormai non scende sotto i 20 a serata – la febbre da Linsanity continua a salire dentro e fuori gli Stati Uniti, una pressione che pochi alla sua età sarebbero in grado di gestire.
La sua è una storia tipicamente americana che negli Stati Uniti torna utile a molti: ad una NBA in cerca di una nuova umanità; ad una società multiculturale ed apparentemente integrante, ma piagata da fortissime discriminazioni interne tra le numerose minoranze; ad un mercato sportivo che, col ritiro di Yao Ming, temeva una clamorosa debacle di popolarità in Cina.
Ma Jeremy prega, si allena, gioca, vince e sorride, sorride sempre. Chi si ricorda un sorriso di Yao Ming, alzi la mano.