Il premier indiano ha annunciato la «fase 2» dell’apertura del mercato agli investimenti diretti stranieri, un impulso che, secondo Modi, farebbe dell’India «l’economia più aperta del mondo». Autocertificazione – facilmente sbugiardabile – che descrive un modello di sviluppo non nuovo e decisamente controverso per i destini della popolazione locale.«L’India è oggi l’economia più aperta del mondo». Queste le parole del primo ministro indiano Narendra Modi, che lunedì 20 giugno si è esibito in un nuovo coup de théâtre di quelli che tanto piacciono ai mercati. Il governo indiano ha infatti inaugurato la «fase 2» del grande piano di liberalizzazione del mercato del subcontinente, togliendo il limite al 49 per cento degli investimenti diretti stranieri (foreign direct investment, Fdi) in diversi settori dell’economia indiana.
Gli Fdi sono la benzina di cui New Delhi ha bisogno per continuare a correre sul tracciato dell’economia globale; sono i «soldi degli altri» che l’India vuole utilizzare per ridurre l’enorme gap infrastrutturale che la divide dalle grandi potenze mondiali, compiendo quel salto «imminente» che però, al di là della crescita del Pil «maggiore della Cina» – stimata intorno al 7,2 per cento per il prossimo anno – ancora fatica a concretizzarsi sul territorio.
L’apertura del mercato indiano è la missione della seconda vita politica di Modi, una promessa elettorale sul cui mantenimento l’ex campione dell’ultrainduismo in Gujarat si gioca la sopravvivenza in queste nuove vesti di statista che, da oltre due anni, porta in tour mondiale con la campagna Make in India, il più grande sforzo di marketing statale dai tempi dell’«India Shining» del premier A.B. Vajpayee (2004).
Dal farmaceutico alla difesa, passando – parzialmente – per l’aviazione civile, d’ora in poi gli investitori stranieri potranno ottenere quote di partecipazione maggiori del 50 per cento, quindi senza l’obbligo di agganciare il proprio destino imprenditoriale in India a un partner locale di maggioranza, in molti casi – difesa esclusa – accedendo a un «permesso automatico» del governo per la realizzazione di strutture da zero (Greenfield projects).
«L’apertura è senza dubbio significativa, ma nel dettaglio i settori interessati sono tutti ad elevata intensità tecnologica e con scarse implicazioni a livello di consumer» ha spiegato a China Files Massimiliano Altabella, coordinatore per il settore economico al Master IGAMI dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e partner della società di management consultancy Relations At Work India.
«L’aspetto più significativo della riforma interessa il settore farmaceutico, in linea col progetto di proiettare il paese come hub del settore a livello mondiale. Ma in India si fatica ancora a vedere una liberalizzazione del settore retail, che aprirebbe davvero il mercato indiano ai prodotti internazionali, costringendo a una naturale competizione – e innovazione – i gruppi locali».
L’attrazione di Fdi, nonostante l’hype del governo indiano, per ora rimane relegata al settore infrastrutturale, esaudendo il desiderio modiano – già concretizzatosi in Gujarat, dove Modi è stato chief minister per due mandati consecutivi – di spingere su un’innovazione tecnologica tangibile che possa far ingolosire i mercati.
Secondo Elisabetta Basile, professoressa di economia politica presso La Sapienza di Roma «è un modello di sviluppo non nuovo e di stampo autoritario: Modi l’aveva già fatto in Gujarat cinque anni fa e allora era già vecchio, basti pensare all’opera del presidente Meles Zenawi in Etiopia, che a cavallo del secolo scorso aprì il paese, e il continente africano, alla Cina. Oggi nell’aeroporto di Addis Abeba i negozi hanno insegne in cinese e in amarico, nemmeno in inglese».
Nonostante il governo indiano abbia presentato la manovra come un nuovo stimolo per la creazione di occupazione nel paese, per Basile «l’obiettivo è quello di realizzare un ciclo “virtuoso”: si creano infrastrutture col capitale locale, per attirare il capitale straniero; col capitale straniero in arrivo, si continuano a creare infrastrutture, realizzate dai costruttori locali. I profitti rimangono divisi tra chi investe e chi costruisce, in un ciclo autoalimentato che lascia fuori la popolazione locale». E di nuovi posti di lavoro se ne vedono pochissimi.
L’argomento principe addotto a difesa di questo ciclo, adottato dai promotori del «development state», presenta il progetto di sviluppo statale in due fasi: prima si fanno le infrastrutture, poi si fanno le politiche sociali. «Ma il secondo tempo – spiega Basile – come in Gujarat e in Etiopia, di solito, non arriva mai».
La «fase 2» delle liberalizzazioni è curiosamente arrivata a pochi giorni dal rifiuto a un secondo mandato di Raghuram Rajan, presidente della Banca centrale indiana molto stimato all’estero, una sorta di assicurazione vivente per la serietà dell’India nelle policy economiche che però non godeva di grandi simpatie nell’esecutivo di Modi.
Che, secondo l’International Chamber of Commerce’s Open Markets Index, nonostante le autocertificazioni rimane il primo ministro del 63esimo paese su 75 per «apertura dell’economia».
[Scritto per il manifesto]