Seconda puntata della collaborazione tra China Files e Istituto Affari Internazionali. “Dall’Atlantico al Pacifico”: ogni due mesi un mini dossier con due diverse analisi sugli ultimi sviluppi delle relazioni tra Stati Uniti, Cina e il resto dell’Asia – (1a uscita, febbraio 2021)
2a uscita: Introduzione (Lorenzo Mariani) – Il riluttante Giappone fa due passi verso gli Stati Uniti (Lorenzo Lamperti) – La strategia di Biden per la Corea del Nord (Paola Morselli)
Nell’edizione dell’ultima settimana di aprile, l’Economist descrive Taiwan come il posto più pericoloso sulla terra. Il motivo? L’importanza che l’isola ricopre per Cina e Stati Uniti, le due superpotenze del nostro tempo. Due aspetti rendono Taiwan una potenziale area di collisione armata: l’importanza geopolitica e quella economica. A queste, per quanto riguarda Pechino, si va aggiungere il valore storico-politico che la riunificazione della Cina intera ha per il Partito e in particolare per l’eredità di Xi Jinping. Né l’importanza geopolitica di Taiwan né quella economica sono segrete o tantomeno nuove, tuttavia è andata crescendo la percezione che quello che prima poteva dirsi un improbabile scontro armato tra Cina e Stati Uniti stia progressivamente diventando plausibile, anche se ancora improbabile. La questione geopolitica riguarda principalmente il ruolo dei due attori nella regione. Per gli Stati Uniti il dilemma riguardante la sicurezza militare nell’area e le possibili ripercussioni sul proprio territorio si è posto più volte nella storia. La questione – seppur in un contesto diverso – era stata affrontata di recente a seguito al perfezionamento da parte del regime nordcoreano dei propri missili balistici intercontinentali. In quel caso ci si era chiesto se in caso di conflitto con la Corea del Nord, Washington sarebbe stata disposta a sacrificare San Francisco per salvare Seul o Tokyo.
Al di fuori della narrativa estrema e provocatoria, oggi con l’intensificarsi delle tensioni nello stretto taiwanese, il dubbio rimane lo stesso e legittimo: gli Stati Uniti sono pronti a sacrificare la stabilità (e prosperità) del proprio paese per difendere un territorio in un’area d’influenza di crescente importanza? Non esiste una risposta chiara e assoluta, ed è proprio su questa incertezza che si fonda il problema in termini di deterrenza attualmente in atto.
Qualora gli Stati Uniti siano determinati a difendere ad ogni costo l’indipendenza di Taiwan e questa fermezza non venisse percepita da Pechino, la possibilità che la Cina continentale opti per un’azione di forza e che questo porti ad un conflitto armato con Washington diventa più probabile.
A scongiurare questo scenario – secondo alcuni osservatori – ci sarebbe il fatto che sia Washington che Pechino non sono pronte ad andare in guerra. In particolare, le ripercussioni economiche derivanti da tale scontro sono ancora un forte deterrente per il Partito Comunista Cinese, che fonda parte della sua legittimità nella capacità di garantire la prosperità economica del paese.
Nonostante la validità dell’argomentazione presentata, sono almeno tre gli elementi che possono screditare questa rassicurante teoria.
Il primo riguarda la diffusa tendenza tra gli osservatori stranieri a non considerare tutti i costituenti della legittimità del Partito Comunista Cinese: oltre alla prosperità economica è necessario tenere presente motivazioni storiche ed ideologiche. Dopotutto il PCC ha ri-energizzato lo sforzo narrativo ed educativo volto a legittimare storicamente e culturalmente il suo ruolo a capo della Cina. Legando a doppio nodo paese e Partito si impegna a coltivare un senso di patriottismo (in alcuni casi, nazionalismo) come fondamenta della legittimità del governo. Sebbene dunque l’economia sia un elemento importante, pensare che a frenare gli interessi del Partito possa essere la paura di perdere legittimità a causa di cattive performance economiche è un’idea in parte fuorviante.
Il secondo elemento riguarda la rilevanza della riunificazione per l’eredità di Xi Jinping. Se i segnali raccolti nel tempo ci dicono qualcosa è che la riunificazione della Cina è innegabilmente una delle priorità di Xi Jinping e rappresenterebbe un elemento importante della propria eredità storica. Anche in questo caso puntare sulla razionalità delle decisioni invece che su calcoli ideologici, politici e personalistici potrebbe rivelarsi la scommessa perdente. Infine, bisogna considerare che gli scontri armati possono essere originati dai motivi più disparati e non solo da una chiara volontà di muovere guerra: la storia è piena di aneddoti riguardanti incidenti che a prescindere da eventuali elementi deterrenti sono degenerati in conflitti.
Questi tre elementi minano l’idea di un possibile equilibrio di deterrenza, tuttavia a loro volta non sono la prova di un’alta probabilità di scontro tra Cina e Stati uniti per Taiwan. Rappresentano piuttosto un monito a tenere presente anche le variabili meno piacevoli ed evitare di sposare una teoria solo perché rassicurante.
Ad onor del vero, però, le tensioni che riguardano Taiwan sono anche di natura economica.
Taiwan è sede del più grande produttore di semiconduttori globale: TSMC. Nonostante l’impresa abbia impianti sia nella Cina continentale che negli Stati Uniti (in costruzione), la sede centrale si è premurata di non delocalizzare la produzione dei chip più avanzati nelle sedi estere in modo tale da detenere un vantaggio strategico economico e una polizza assicurativa nei confronti dello scontro tra grandi potenze. Di recente, infatti, TSMC ha comunicato che non intende aprire nuovi impianti altrove. I semiconduttori, ovviamente, hanno sì natura economica, ma anche strategica e militare poiché ad oggi sono fondamentali per il funzionamento della società intera: dal tostapane al satellite e dal cellulare al carrarmato. Con la digitalizzazione questa dipendenza è destinata crescere. Ed ecco un altro dei motivi per cui Pechino dovrebbe prendere sul serio la determinazione statunitense a difendere l’isola – Washington non sarà incline a lasciare che la Cina ottenga un tale vantaggio nella corsa tecnologica. Almeno fino a che non avrà sviluppato una capacità produttiva interna dello stesso livello. Detto ciò, l’attuale status quo, dove Taiwan è una democrazia separata dalla Cina ma non indipendente, è evidentemente vantaggioso per entrambe le superpotenze, e per Taiwan stessa.
Perciò, pur tenendo in considerazione tutte le variabili sopramenzionate, il rischio che nel breve termine Taiwan si veda al centro di uno scontro armato tra superpotenze rimane limitato. Per concludere senza concludere, gli elementi che intercorreranno nel dare forma al futuro di Taiwan sono numerosi e diversi, ma in un tempo in cui la politica tende ad avere la meglio sugli interessi economici, tutto è possibile, anche uno scontro armato tra superpotenze.
Di Francesca Ghiretti*
Ricercatrice nell’ambito degli studi sull’Asia presso Istituto Affari Internazionali (IAI), dove lavora principalmente su progetti riguardanti la politica estera cinese, i rapporti Italia-Cina ed Europa-Cina. Sta terminando un PhD presso il King’s College London, dove analizza gli investimenti diretti esteri cinesi in UE.