Gurgaon, a uno sputo da New Delhi, dovrebbe essere una specie di città del futuro, un’oasi di modernità e presunta efficienza dove gli effetti della liberalizzazione del mercato indiano post anni ’90 hanno avuto sfogo in complessi residenziali avveniristici – e, secondo chi scrive, mostruosi – sedi di multinazionali e giganti dell’India Inc., centri commerciali e brodo primordiale dello yuppismo nell’India settentrionale. Gurgaon, a tutti gli effetti, non è una città: è un brand, uno status symbol, una filosofia dell’esistenza proiettata verso l’Eldorado estetico dell’Occidente. Dal 12 aprile scorso, rispondendo a una millantata richiesta «dal basso», il governo dell’Haryana (in cui ricade il territorio di Gurgaon) ne ha cambiato il nome in Gurugram, rifacendosi alla tradizione letteraria – sovente scambiata per Storia – del poema epico Mahabharata. La novità, eufemisticamente, non ha entusiasmato i residenti.Il cambio nome è stato introdotto dal governo locale guidato da Manohar Lal Khattar (Bjp), rifacendosi al testo epico hindu in cui si narra che le famiglie dei Kaurava e dei Pandava, in segno di ringraziamento, avessero regalato a Dronacharya – maestro dell’arte della guerra – un vasto territorio in loro possesso. Su quel territorio sarebbe stata poi fondata Gurugram – il «villaggio del guru», in hindi.
Il nome più recente e laico, Gurgaon, sarebbe stato adottato per via di un grosso mercato del gur – jaggery, in inglese – la melassa derivata dal dattero (o dalla palma o dalla canna da zucchero) ingrediente base di gran parte dei dolci indiani: quindi Gur-gaon, il villaggio del gur.
Ritorno al passato mitologico e glorioso
Con un colpo di spugna spaziotemporale, l’esecutivo conservatore hindu dell’Haryana ha deciso di imprimere nella periferia futuristica di New Delhi – ci arriva la metro, a Gurgaon, e pur cambiando tecnicamente stato, il territorio di Gurgaon è letteralmente attaccato a quello della capitale indiana – un marchio identitario che riportasse l’immaginario collettivo alla mitica Età d’Oro dell’India del passato: forte, indomita, induista.
Su Scroll.in, forse ingigantendo un po’ la faccenda quando paragona Gurgaon a Manhattan, Ajaz Ashraf inserisce l’episodio all’interno del progetto di ultracapitalismo in salsa hindu portato avanti dal governo Modi: la volontà palese di spingere il paese verso un futuro ultracapitalista, mantenendolo al contempo ancorato alle tradizioni hindu.
Il governo dell’Haryana ha giustificato la decisione sostenendo di rispondere a una non meglio specificata «richiesta popolare». Richiesta che, si presume, non sia arrivata dai top executives che risiedono a Gurgaon. L’Economic Times ne ha intervistati alcuni, raccogliendo valutazioni che spaziano da «errore epico» a «un disastro».
Dio patria e casta
Sforzandosi di trovare una ratio dove la ratio appare non esserci, possiamo ipotizzare che dopo le violentissime proteste della comunità hindu dei Jat, che un mese e mezzo fa ha messo a ferro e fuoco ampie porzioni dell’Haryana chiedendo di essere inserita nel gruppo delle reservations che garantisce posti di lavoro statali e accessi all’università bloccati (venendo tra l’altro accontentata, dopo scontri con l’esercito e decine di morti), rinominare la perla dello stato con chiaro riferimento alla tradizione hindu possa essere una buona professione di fede fatta agli strati sociali meno facoltosi, precedentemente fatti innervosire con promesse elettorali non mantenute.
D’altronde, nonostante l’Haryana sia tra gli stati più ricchi dell’India, escludendo una manciata di città satellite di Delhi – Gurgaon, Faridabad, Rohtak… – sede di poli industriali e quartier generali di colossi multinazionali (indiani e non), il resto dell’Haryana – 25 milioni di persone, dati del 2011 – è composto da una popolazione che con la Manatthan indiana non ha davvero nulla a cui spartire.
Il 70 per cento degli abitanti dell’Haryana è impiegato nel settore agricolo e risiede in centri piuttosto lontani dal concetto di modernità hindu che Modi vorrebbe estendere a tutto il paese.
E dove più dello yuppismo fuori tempo massimo, la politica locale si nutre della Santa Trinità: dio, patria e famiglia (o meglio, casta).
[Scritto per Eastonline]