Appuntamento con Hao Jie, ventottenne cinese che presenta a Roma il suo primo film in occasione di Asiaticafilmmediale, festival di cinema asiatico. Il suo lungometraggio, Single Man, è stato selezionato in diversi festival importanti: San Sebastian, Vancouver, San Paulo e Tokyo. A Roma vince il premio Netpac, Network for the Promtion of Asian Cinema.
La pellicola descrive con realismo e sottile ironia la vita dei contadini del villaggio natale del regista, Gujiagou, situato a soli 150 chilometri da Pechino. Gli abitanti di Gujiagou sono principalmente uomini di una certa età, abituati a una vita di duro lavoro e poche distrazioni, soprattutto femminili. Gli attori stessi, tutti non professionisti, sono parenti e amici del regista, cresciuti anche loro in questo piccolo villaggio dello Hebei. Una vita fuori dal tempo, fatta di agricoltura, piccoli commerci e rari svaghi.
Quattro vecchietti, scapoli e senza peli sulla lingua, si incontrano regolarmente in cima a una collinetta che domina il villaggio e spettegolano. Il film si concentra sulle loro frustrazioni sessuali. C’è chi paga la moglie del quadro di partito che deve mantenere il figlio all’università, chi compra moglie dal lontano e povero Sichuan e c’è chi si consola palpeggiando l’amico. Mater semper certa est, dicevano i latini. È una realtà che Hao Jie conosce bene; le storie, i personaggi e i paesaggi sono quelli che lo hanno accompagnato per tutta l’infanzia e l’adolescenza fino a quando non è andato a Pechino a frequentare la Beijing Film Academy, rinomata accademia di cinema, culla del cinema indipendente cinese e scuola di alcuni tra i più importanti registi della sesta generazione (tra cui Jia Zhangke, Leone d’oro 2006 a Venezia).
Quando lo incontriamo è piuttosto stanco, ma appena entriamo nel vivo dell’intervista si rianima. Ha voglia di parlare di sé e del cinema indipendente in Cina. E sopratutto vuole affermare un principio: bisogna raccontare quello che ci interessa, senza preoccuparsi di formulare un giudizio di merito. Quello, semmai, spetta a Dio.
Perché hai rappresentato il mondo delle tue origini nel tuo primo film?
Per prima cosa perché quella è una parte importante della mia vita e la volevo raccontare. E poi… i film sulle campagne cinesi in genere sono finti. Troppo spesso la propaganda rivoluzionaria sostituisce la vita reale.
Sono ormai diversi anni che vivi a Pechino e la vita di città non è certo come quella delle campagne. Che tipo di sensazioni hai rispetto alla vita che facevi prima? Cosa rappresenta per te la tua società di origine?
Ho trascorso a Gujiagou tutta la mia infanzia. È un periodo molto importante nella formazione di ogni persona. Quando ero piccolo passavo molto tempo a sognare e finivo per immaginare cose che non erano reali e ad analizzare il rapporto, la distanza tra immaginazione e realtà. A Gujiagou ci sono le mie radici, non riesco ad averne una valutazione oggettiva, né a paragonarlo onestamente a Pechino. Il mio punto di vista è solo mio, è troppo soggettivo. Torno spesso a casa…
Quanto spesso?
Tre, quattro volte all’anno. Amo quel posto, tutte le cose belle che mi sono successe quando ero piccolo. Penso sempre a quel periodo con molta nostalgia. Perché ho fatto un film sul mio paese? Per le persone che lo abitano, il loro modo di parlare, il teatro popolare… tutte cose che mi piacciono molto!
Quello che rappresenti è un mondo che sta scomparendo?
Vedete, la modernità, lo sviluppo… già nel film potete accorgervi che nel mio villaggio non ci sono più giovani, che le figlie sono care da crescere e che per questo è meglio maritarle al più presto. Rimangono solo i vecchi. Le tradizioni che ho rappresentato nel film scompariranno presto, probabilmente ne ho documentato le ultime tracce.
Ti fa paura la completa scomparsa di questo mondo tradizionale?
Sì, probabilmente presto se ne andranno tutti dal mio villaggio. Le persone sono già troppo poche e le amministrazioni a cui fanno capo presto non se ne potranno più occupare. Ma credo che anche questo sia parte di un’evoluzione naturale. Non so se sia un bene o un male, nessuno può saperlo. La storia giudicherà.
Nel film colpisce il contrasto del mondo che racconti, un mondo contadino fuori dal tempo, e alcune immagini che vengono trasmesse dalle tv dimenticate accese negli spazi comuni delle case. Hu Jintao stringe la mano a Sarkozy, Pechino ha appena ospitato le Olimpiadi del 2008 e la Cina si presenta sul piano internazionale come una potenza emergente in grado di mettere in discussione la supremazia degli Stati Uniti. Intanto nelle campagne le priorità sono quelle di sempre: la vendita del raccolto di cocomeri a tre centesimi al chilo piuttosto che a due, trovare moglie, trovare i soldi per mandare almeno un giovane all’università…
Ho capito cosa volete dire. Credo che quando si sceglie di rappresentare le campagne cinesi, il contrasto con le realtà cittadine salti inevitabilmente all’occhio. Ma non era questo il mio obiettivo. Se avessi voluto rappresentare le contraddizioni della Cina moderna, la contrapposizione tra le aree rurali e quelle metropolitane, avrei fatto altre scelte, avrei raccontato storie diverse. A voler davvero cercare le contraddizioni… sarebbe terrificante. Sono mostruose e sono dappertutto. E non solo in Cina, in ogni paese.
Colpisce il tono cauto della tua narrazione. Ad esempio quando tratti la compravendita delle mogli. È un argomento spinoso e tu, attraverso l’ironia, riesci ad evitare di dare giudizi definitivi. Racconti di una consuetudine che inevitabilmente crea dolore senza etichettare come “cattivo” chi la pratica. Il tuo è un occhio che capisce i meccanismi di una realtà rurale e non ne giudica gli uomini. Vuoi dirci qualcosa in proposito?
Questa domanda mi piace molto, ma non ha nulla a che vedere con il mio paese; piuttosto rispecchia un’attitudine mentale, una maniera con cui mi approccio al racconto e, quindi, al film. Infatti, credo di non avere le qualifiche per giudicare il comportamento altrui. In Cina i film che prendono posizione su quello che raccontano sono fin troppi. Appena finisce il film cominci a chiederti qual è la teoria che vuole dimostrare. Come se il cinema fosse solo l’ennesimo strumento di propaganda. Io, invece, faccio solo il mio mestiere, filmo. Credo che nessuno abbia le qualifiche per giudicare se un comportamento è giusto o sbagliato. Forse dio ce le ha, ma noi non siamo dio. Forse anche il progresso, la storia, ci potrà insegnare se era giusto o sbagliato. Ma anche quella valutazione non è certa. Nel breve periodo ci può sembrare giusto qualcosa che nel lungo periodo risulta sbagliata. E viceversa.
Se proprio fossi costretto a prendere posizione, cercherei di farlo il più timidamente possibile. Se qualcun altro vuole giudicare la realtà, lo faccia pure. A me basta filmarla perché, come recita il taoismo, la più grande musica ha il suono più sottile e la più grande immagine non ha forma. E, se vogliamo estendere questo concetto al mio lavoro, documentare senza commentare produce un messaggio ancora più forte.
Infatti in Scapoli si avverte il tuo interesse per determinate situazioni e il giudizio sui tuoi personaggi è spesso sostituito da uno sguardo divertito. È così?
Sì, è esattamente questo. Racconto solo ciò che mi sembra interessante.
Sei molto giovane e il tuo primo film ha partecipato a importanti festival internazionali. Come ci sei arrivato? Puoi spiegarci come funziona il mondo della produzione cinematografica in Cina? Quali sono i passaggi che bisogna fare una volta chiuso il film?
In Cina per fare cinema indipendente hai bisogno di un’impresa che ti appoggi. Senza quest’ultima è impossibile: nessuno ti presta i soldi. Quindi il primo passo è quello di trovare una persona, un imprenditore, non importa se è dell’ambiente cinematografico o meno.
Ma gli imprenditori di cui parli investono sul tuo lavoro per interesse economico o perché pensano che quello che fai ha un valore?
Nella maggior parte delle situazioni, tipo la mia, l’investitore non è intenzionato a guadagnarci sopra. Si muove in nome di un interesse collettivo, di una responsabilità sociale. Questo se si parla di film realisti, che non mistificano la realtà.
Quant’è costato il tuo film?
Trecentomila renminbi, circa trentamila euro.
E una volta trovati i soldi?
Solo una volta trovati i soldi, si comincia a girare il film. E poi, se il film è buono, è facile partecipare ai festival. Addetti ai lavori di tutto il mondo vengono in Cina a selezionare i lavori migliori.
Quindi sono gli stranieri che vengono in Cina a cercare i film indipendenti da produrre e non voi registi che cercate di mandare i film all’estero.
Succedono tutte e due le cose. Gli stranieri cercano film, li vedono e se gli piacciono sono loro a proporti ai festival del loro paese. Se non vengono a cercarti allora puoi a provare a spedire loro il tuo lavoro.
Ti sei diplomato alla Beijing Film Accademy. Pensi che questo ti abbia aiutato?
Sì, perché mi ha permesso di conoscere molte persone che lavorano nel mondo del cinema. I maestri hanno contatti importanti all’estero. Per i giovani registi può essere una buona facilitazione.
I festival cinesi a cui hai partecipato in Cina sono molto più piccoli di quelli internazionali. Ritieni che sia più difficile riuscire in Cina piuttosto che all’estero? Perché?
Per un film indipendente in Cina non c’è nessuna possibilità di partecipare ai principali festival ufficiali. È impossibile che ti prendano in considerazione.
Ma ci hai provato?
Ci sono regolamenti e criteri di selezione molto rigidi. Sicuramente con un film indipendente non puoi partecipare.
Cosa vuol dire cinema indipendente in Cina? Indipendente nella produzione? Nei contenuti?
Per me, cinema indipendente vuol dire sentirsi liberi. Non pensare al significato, non curarsi dei problemi che si possono incontrare, né se ci sono cose che non sei autorizzato a girare. Significa decidere da solo, in completa libertà di spirito. Anche per questo ho scelto di girare il mio primo film a Gujiagou. È il mio paese natale ed è stato tutto più facile. Non dovevo chiedere i permessi, potevo risparmiare e sperimentare a mio piacimento.
E per concludere, una domanda classica: hai già qualche idea per il tuo prossimo film?
Sì, si chiamerà Vedove e sarà tratto da una novella di uno scrittore dello Shanxi. Se non ci sono imprevisti vorrei cominciare a girarlo la prossima estate. Mi piacerebbe fare un film migliore di questo, vorrei suscitare emozioni più forti, più violente.Anche questa volta gli attori saranno non professionisti, ci sarà musica folk, gli attori canteranno. Sarà un musical!